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Innovazione e cambiamento per le PMI

Innovazione e cambiamento: fattori strategici per la sopravvivenza delle Piccole e Medie Imprese

L’importanza di un supporto efficace per affrontare questo percorso


L’evoluzione degli scenari

Foto di Augusto Ordóñez -Pixabay

L’inizio dell’anno è sempre un momento di bilanci e di indagine sulle prospettive per il futuro. Secondo alcuni esperti, l’anno appena iniziato sarà per la nostra industria interlocutorio per effetto delle dinamiche dell’economia mondiale, che l’Italia riuscirà a superare continuando a valorizzare la diversificazione della propria economia e del proprio tessuto imprenditoriale.

In questo contesto di analisi e aspettative, si inseriscono anche le statistiche e le previsioni di Cerved, la società che dal 1973 studia le evoluzioni del mondo imprenditoriale.

Secondo il Rapporto Cerved PMI 2023, a un 2022 positivo per le PMI italiane (+6,1% di fatturato, +3,2% di valore aggiunto), nel 2023 si è avuta un’inversione della tendenza, causata dall’inflazione, dal rialzo dei tassi di interesse e dalle note situazioni di conflitto in atto nello scenario geopolitico. Sempre secondo le previsioni 2024-2025 elaborate da Cerved, sarebbero a rischio l’8,5% delle piccole e medie imprese; inoltre lo scorso anno, per la prima volta dal 2019, sono tornate a crescere le chiusure di impresa (+33,3%), in particolare nel settore manifatturiero.

Nuove sfide imprenditoriali

Nei prossimi anni le aziende si troveranno quindi ad affrontare nuove sfide, operando scelte strategiche per assicurare la loro stessa sopravvivenza.

Inevitabilmente si assisterà a una sorta di selezione naturale che, secondo gli esperti, interesserà in particolare le PMI e che potrà essere superata solamente con delle decisioni mirate di investimenti, di diversificazione e di innovazione. Solo gli imprenditori che sceglieranno di non stare alla finestra potranno mantenere e accrescere il proprio livello di competitività e le proprie quote di mercato, superando la congiuntura sfavorevole e fronteggiando efficacemente la concorrenza europea ed extra-europea.

Foto di neo tam - Pixabay

Per poter fare degli investimenti occorrono però risorse finanziarie e per poter disporre di tali mezzi senza aumentare l’indebitamento dell’azienda, la strada obbligata è quella della riorganizzazione delle attività, che però non vuol dire tagliare indiscriminatamente produzione e personale. Un progetto di riorganizzazione aziendale efficace deve porsi come obiettivo l’eliminazione delle attività prive di valore aggiunto, con la conseguente liberazione di risorse finanziarie da indirizzare, ad esempio, nello sviluppo di nuovi prodotti, nella ricerca di opportunità di mercato diverse e nella formazione per la riqualificazione del personale.

A riguardo, è interessante la citazione tratta dal discorso fatto da Adriano Olivetti in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli (aprile 1955):

«Innalzare le nostre insegne a New York come a Francoforte, a Vienna come a San Francisco, a Rio de Janeiro o a Città del Messico o nella lontana Australia, organizzare officine, istruire venditori (…) garantire l’efficienza del personale, assicurare ovunque un servizio di assistenza tecnica (…) non fu cosa né facile, né rapida.

E questa lotta non avrà mai fine, poiché la concorrenza, le invenzioni, i perfezionamenti non hanno limiti e dovremo, sotto questo riguardo, non dar mai segni di stanchezza, alimentando di nuove forze tecniche i nostri laboratori di ricerche, i nostri centri studi.» (Adriano Olivetti “Ai Lavoratori”, Edizioni di Comunità).

Foto di Mohamed Hassan - Pixabay

Nel testo riportato è efficacemente riassunto l’atteggiamento delle imprese virtuose, che guardano costantemente al prodotto, all’innovazione e al mercato, per cogliere i cosiddetti “segnali deboli” e sfruttare tempestivamente le opportunità. Sono queste le aziende capaci di risollevarsi da momenti di crisi e sulla base dell’indice “Back-to-Bonis Score” (sviluppato sempre da Cerved mediante algoritmi predittivi che stimano le capacità di recupero per ogni posizione deteriorata o a rischio di deterioramento); tra queste si annoverano le imprese a controllo familiare, quelle con un amministratore delegato esterno, le startup innovative, le aziende guidate da under 35 e quelle con una leadership femminile.

Il ruolo della consulenza

Per operare efficacemente una riorganizzazione, è opportuno che la Direzione aziendale valuti con serenità di ricorrere a un supporto di consulenza. Spesso, infatti, l’imprenditore è assorbito dalle questioni correnti e dalle esigenze immediate e, se non viene adeguatamente assistito, non è in grado di dedicare il tempo adeguato e la giusta riflessione alle strategie di riorganizzazione.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

Inoltre, la partecipazione ai progetti di figure qualificate con una conoscenza ad ampio spettro delle realtà imprenditoriali, consente di studiare e di implementare soluzioni derivanti da tale bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Infine, è importante procedere con metodo, e a questo proposito, una garanzia di affidabilità è costituita dalla certificazione di Qualità in base alla norma ISO 9001:2015. La certificazione garantisce, ad esempio, lo sviluppo delle diverse fasi del processo di consulenza a partire da un’analisi di rischi e opportunità e dalla definizione di specifici obiettivi di risultato.

Il consulente, oltre a saper analizzare le situazioni correnti, deve essere capace di costruire e proporre le opzioni di scenario più funzionali alle caratteristiche dell’azienda e guidare l’imprenditore verso una scelta consapevole che permetta percorsi da seguire con costanza e continuità.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

BluPeak Consulting è un’azienda con Sistema di Gestione della Qualità certificato secondo la norma ISO 9001:2015

Lifelong Learning

Cogito ergo sum, ovvero mantenere il know how e la competitività con la formazione continua


Le origini

Quando si parla di formazione, è ormai un fatto acquisito non riferirsi solamente all’ambito scolastico o universitario, né a un ciclo di apprendimento circoscritto nel tempo. Da diversi anni è entrato nel linguaggio comune il concetto di lifelong learning, ossia di apprendimento continuo, che ha cambiato il modo di intendere la costruzione, il mantenimento e l’accrescimento della conoscenza nei diversi settori lavorativi, dalle libere professioni al lavoro dipendente.

L’idea di una formazione continua, spesso di tipo esperienziale (training on the job), nasce intorno agli anni ’30 del XX secolo. I primi destinatari sono gli operai che, nelle fabbriche in cui viene applicata l’organizzazione scientifica del lavoro (il cosiddetto taylorismo) devono apprendere e applicare nuove modalità di lavorare secondo fasi specifiche e ripetitive, rigidamente temporizzate.

Negli anni ’70 l’educazione permanente inizia ad avvicinarsi alla forma attuale. Nel 1972 viene pubblicato dall'UNESCO il rapporto Faure intitolato “Learning To Be”. Nel documento viene definito un concetto che influenzerà le politiche educative e formative conseguenti. La formazione deve essere fondata sulle esigenze della persona per cercare di migliorare complessivamente la qualità della vita personale e professionale. Non si parla più solo di acquisire conoscenze in un preciso periodo della vita (tradizionale percorso accademico di studi o acquisizione di un mestiere), ma di un apprendimento continuo in linea con i mutamenti della società e del lavoro.

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio il lifelong learning completa la propria connotazione acquisendo la forma attuale.

La formazione continua oggi: le “Academy”

In ambito aziendale, il concetto di formazione continua è spesso declinato mediante specifiche strutture organizzative: le Academy.

La creazione di una simile struttura riveste un duplice scopo:

  • trasmettere alle nuove generazioni il prezioso bagaglio di esperienza, il know how maturato dall’impresa nel corso degli anni e custodito da operai e tecnici qualificati;

  • assicurare la formazione delle nuove leve di operai e tecnici integrando i percorsi scolastici e universitari già citati.

Anche il concetto di Academy aziendale non è nuovo. Nel 1922 nasceva la “Scuola Allievi Fiat” (poi ISVOR-Fiat) seguita nel 1927 dall’Academy di General Motors. Tra gli anni ’30 e ’40 del XX secolo, Olivetti dava vita al Centro di Formazione Meccanici e a un Istituto Tecnico Industriale. Nel secondo dopoguerra meritano di essere citati gli esempi della Scuola di Studi Superiori sugli Idrocarburi dell’ENI del 1957 (fortemente voluta e promossa da Enrico Mattei come strumento strategico di formazione delle risorse che avrebbero contribuito alla nuova politica energetica sviluppata dallo stesso Mattei in campo internazionale) e la Scuola Superiore Guglielmo Reiss Romoli per le telecomunicazioni, creata dalla STET nel 1972.

Non tutte le istituzioni sopra citate sono oggi ancora attive. Tra le iniziative che attualmente promuovono la formazione continua in azienda è opportuno citare la Tod's Academy e quella di Prada, che consentono a esperienze artigianali di nicchia nel campo della pelletteria e della moda di sopravvivere ed essere tramandate alle giovani generazioni, assicurando loro anche un futuro professionale nell’impresa.

Anche BluPeak ha avuto modo di confrontarsi con un progetto di creazione di un’Academy aziendale fornendo il proprio know how consulenziale a un’impresa del settore impiantistico la cui Direzione ha mostrato di essere sensibile alle tematiche della formazione continua, come evidenziano queste considerazioni del General Manager della società:

«In 50 anni non abbiamo mai perso un cliente per un problema non risolto. Per mantenere questi standard, garantiamo un’adeguata formazione continua a tutti i collaboratori: BluPeak Consulting ci affianca con professionalità e successo in queste attività importanti.»

L’importanza della consulenza e di una formazione certificata

Per lo sviluppo delle specifiche iniziative di formazione, così come per la creazione di un’Academy, le aziende possono appoggiarsi su risorse interne, ma anche affidarsi a un supporto consulenziale esterno.

Questa seconda alternativa permette di arricchire l’organizzazione e i contenuti della formazione grazie all’esperienza dei consulenti derivante dalle relazioni e dal confronto con diverse realtà. Uno sguardo esterno consente inoltre di focalizzare e valorizzare opportunamente eventuali aspetti e contenuti che potrebbero sfuggire all’imprenditore.

Infine, la possibilità di affidarsi a organizzazioni che adottano un Sistema di Gestione per la Qualità certificato secondo lo standard di riferimento ISO 9001:2015 garantisce un alto livello di affidabilità sia per quanto riguarda la scelta dei docenti, sia per la progettazione e l’erogazione dei contenuti secondo modalità codificate e validate dall’Ente esterno che emette la certificazione (esempio TuV Italia, IMQ, DNV, Kiwa, Rina, ecc.).    

Gli incentivi per la formazione continua

Anche il legislatore ha da tempo riconosciuto l’importanza della formazione continua e di incoraggiare le iniziative mediante appositi incentivi.

Il principale strumento di incentivazione della formazione è costituito dai Fondi Paritetici Interprofessionali.

I Fondi Paritetici Interprofessionali (istituiti con la Legge 388/2000) sono organismi di natura associativa finalizzati alla promozione di attività di formazione rivolte ai lavoratori occupati. Per queste attività, i Fondi sono autorizzati a raccogliere lo 0,30% della retribuzione del singolo lavoratore versato all’INPS dalle aziende iscritte al Fondo stesso come "contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria" e a utilizzare queste risorse per promuovere azioni formative volte a qualificare – in sintonia con le strategie aziendali – i lavoratori dipendenti.

Altri incentivi alla formazione sono istituiti con bandi regionali, spesso collegati alla erogazione di fondi europei.

Infine, la revisione del PNRR operata dal Governo italiano, insieme alla riformulazione degli obiettivi e delle risorse, individua una dotazione di circa 6,4 miliardi di euro per incentivi che saranno indirizzati su tre aree specifiche per l’efficientamento dei processi:

  • efficienza energetica;

  • produzione e autoconsumo di energia;

  • formazione.

Per quanto riguarda la formazione, vale la pena ricordare che tra i soggetti che possono provvedere direttamente alla creazione e alla realizzazione di progetti finanziati con le modalità sopra citate, sono esplicitamente menzionate le organizzazioni – come ad esempio BluPeak – che possiedono la certificazione di Qualità in base alla norma ISO 9001:2015 per il settore IAF (International Accreditation Forum) EA 37 (Istruzione).

Conclusioni

Dalle considerazioni che abbiamo cercato di sviluppare, appare evidente come la formazione continua delle risorse sia un fattore strategico per le imprese in grado di garantirne la continuità nel tempo e la competitività nel mercato.

A tale scopo è opportuno che le aziende si dotino di uno specifico budget da destinare sia al mantenimento e allo sviluppo di una specifica organizzazione dedicata alla conservazione e allo sviluppo del know how d’impresa, sia all’organizzazione di iniziative di formazione (con un eventuale supporto esterno) integrando eventuali incentivi messi a disposizione dallo Stato.

Il patrimonio intellettuale rappresentato dalle persone che lavorano in azienda è, senza ombra di dubbio, il principale bene intangibile dell’impresa, su cui investire rappresenta una priorità strategica.

Gianni Berengo Gardin - Olivetti Pozzuoli

Lo aveva intuito correttamente Adriano Olivetti quando diceva:

“La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”.



Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Adriano Olivetti, imprenditore visionario

Esistono ancora in Italia imprenditori visionari capaci di operare la Business Transformation?

L’esempio di Adriano Olivetti e le trasformazioni industriali di oggi

Quando si parla di imprenditori visionari, l’esempio che viene sempre citato è quello di Steve Jobs. Senza nulla togliere a questo protagonista della storia recente, il cui merito è senza dubbio quello di aver saputo declinare in modo inedito oggetti di uso quotidiano (pc e telefonini) e di offrire al mercato proposte innovative (iPod e tablet), anche in Italia abbiamo avuto un modello eccellente di imprenditore, le cui intuizioni hanno portato importanti rivoluzioni di prodotto e hanno consentito a un’azienda nata nel Piemonte agricolo, di diventare protagonista sui mercati di tutto il mondo.

Adriano Olivetti: l’uomo, la fabbrica e il mondo

Difficile riassumere il personaggio Adriano Olivetti (qui in una foto del 1957) in una definizione unica ed esauriente, considerato il contributo che ha fornito all’economia italiana del secondo dopoguerra e alla storia della cultura industriale in generale.

Imprenditore, intellettuale, politico (purtroppo con scarso successo), innovatore, urbanista, Olivetti era certamente un visionario (attribuendo alla vision il senso di percezione strategica dell’evoluzione e del fine ultimo che le organizzazioni devono perseguire per raggiungere e mantenere livelli di eccellenza), probabilmente in anticipo sui tempi per l’epoca in cui ha vissuto e ha espresso le sue idee.

Per capire la portata del pensiero di Olivetti, è opportuno citare alcune frasi tratte dal discorso fatto ai lavoratori in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento campano di Pozzuoli nel 1955. Le sue parole precisano il ruolo che un’azienda riveste non solo nel sistema produttivo in generale, ma anche nel tessuto sociale del territorio in cui opera:

“Il segreto del nostro futuro è fondato, dunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda.”

“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di fabbrica?”

“La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza (...) una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe, infine, della vita stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di elevamento sociale.”

L’azienda è concepita e presentata dunque come entità dinamica, innovatrice nei metodi e nelle attrezzature, ai cui obiettivi concorrono in maniera consapevole tutti i componenti dell’organizzazione (dal dirigente all’apprendista); azienda come strumento di riscatto e di prosperità collettiva e non solamente come fonte di profitto per gli azionisti.

Queste idee, espresse con forza e profondamente radicate nelle convinzioni di Olivetti, rappresentano i cardini del pensiero olivettiano, la cui architettura vede Fabbrica, Persone e Territorio come realtà interconnesse che operano scambi reciproci e si influenzano l’un l’altra, vivendo e crescendo in simbiosi con reciproco beneficio.

La fabbrica costituisce un organismo socioeconomico i cui componenti devono operare in sinergia per un fine comune e condiviso. Il profitto non può rappresentare il fine ultimo e principale dell’industria. La fabbrica deve essere aperta e partecipe delle vicende del territorio in cui opera.

Dall’inizio degli anni 30 del secolo scorso, quando arriva ai vertici aziendali, Olivetti indirizza la propria linea gestionale secondo tre direttrici di strategia precise, che portano la società a operare un’importante trasformazione di business:

  • il prodotto;

  • i mercati;

  • le persone.

Nel 1932 esce la MP1, tra le prime macchine da scrivere portatili per dimensioni e peso (circa 5 kg per un’altezza di 11 cm), ma soprattutto il primo prodotto Olivetti nel quale viene applicato, per la prima volta, un concetto caro all’ingegnere, che diventerà il filo conduttore delle politiche di prodotto aziendali e sarà fonte di prestigiosi riconoscimenti: il design.

Erede dell’MP1 sarà negli anni ’50 la Lettera 22, nata da un progetto di Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio, che nel 1959 vincerà il premio “Compasso d’Oro” per il design e che è esposta nella collezione permanente di design al “Museum of Modern Art” di New York.

Sotto la spinta di Olivetti vengono anche rinnovati gli edifici aziendali applicando concetti architettonici inediti e viene dato impulso alla ricerca su settori innovativi (le macchine da calcolo, l’elettronica), vengono aperti nuovi mercati e, soprattutto, viene creata una rete di punti vendita unica nel suo genere, nella quale al prodotto viene affiancata l’estetica dei locali, un’attenzione al design degli ambienti e degli arredi.

Adriano Olivetti può, a tal riguardo, essere considerato a pieno titolo l’inventore del concetto di showroom nel senso moderno del tema. Un interessante esempio di questa filosofia è lo showroom Olivetti di New York (dove le macchine erano poste su piedistalli all’esterno del locale, a disposizione di chiunque volesse provarle) e il Negozio Olivetti di Venezia, progettato dall’architetto Carlo Scarpa, e che oggi restaurato, è visitabile come spazio museale.

Negli anni 50 e 60, alle macchine da scrivere e da calcolo si affianca un settore emergente: l’elettronica. Anche qui Olivetti ha intuizioni geniali, una per tutte sostenere le ricerche dell’ing. Mario Tchou, brillante tecnico italo-cinese, padre dell’Olivetti ELEA (ELaboratore Elettronico Automatico), primo calcolatore a transistor che rispetto agli elaboratori a valvole allora esistenti abbinava rapidità di lavoro e ingombri ridotti. 

L’ELEA 9003 viene presentato alla Fiera di Milano nel 1957. È un grande successo della ricerca e dell’industria italiana, che apre l’era informatica della Olivetti che porterà l’azienda ai vertici mondiali dell’informatica di consumo, con prodotti che coniugano design e prestazioni.

Altro caso da ricordare è sicuramente la vicenda tecnica del progetto P101 che, nato inizialmente come prodotto sperimentale, è di fatto diventato il primo esempio di computer “da tavolo” a cui si ispirerà l’americana HP per le proprie macchine da calcolo e che sarà utilizzato dalla Nasa per le missioni lunari.


L’eredità di Adriano Olivetti nell’industria italiana di oggi

La prematura e improvvisa morte di Adriano Olivetti (avvenuta nel 1960 ad appena 59 anni) ha sicuramente privato l’industria italiana di un protagonista che molto avrebbe potuto ancora dare al contesto sociale ed economico, e che ha avuto pesanti ripercussioni anche sull’evoluzione della stessa azienda Olivetti, oggi di fatto scomparsa.

Se si volessero riassumere in breve gli insegnamenti di Adriano Olivetti si potrebbe dire:

  • una fabbrica è fatta prima di tutto di PERSONE;

  • un’industria vive di PRODOTTI;

  • AZIENDA e TERRITORIO sono intimamente legati da comuni obiettivi di sviluppo.

Tenendo presente tali brevi massime, tuttora estremamente attuali, viene spontaneo chiedersi se nel contesto industriale di oggi si possono trovare degli eredi del pensiero olivettiano.

Senza fare nomi, possiamo dire che oggi in Italia, ma anche in altri paesi industrializzati, sono individuabili due macrocategorie di “capitani d’industria”:

  • i capitalisti;

  • gli imprenditori.

I primi sono proiettati verso una dimensione dell’azienda prettamente finanziaria che guarda molto ai dividendi e meno al consolidamento e allo sviluppo attraverso l’innovazione di prodotto, la ricerca di nuovi mercati, il radicamento nel territorio e la conservazione del know how. Per costoro, gli investimenti sono pilotati esclusivamente dalla capacità di essere remunerativi e non sono necessariamente legati a una tipologia di prodotto o a un luogo di produzione specifico. Essi agiscono in funzione di una logica che, tra gli stakeholder aziendali, mette l’azionista al primo posto. Così le aziende si trovano a essere delle entità astratte e prive di radici e personalità, come nella definizione che il sociologo Franco Ferrarotti ha dato delle multinazionali.

I secondi sono coloro che si impegnano in azienda in prima persona affrontando ogni giorno i problemi e le sfide che nascono nella fabbrica, che seguono le evoluzioni del mercato cercando costantemente nuove opportunità e investono i guadagni nel miglioramento delle tecnologie e dei macchinari e nell’ampliamento delle infrastrutture anziché in dividendi, perseguendo una logica di sviluppo nel rispetto delle proprie radici, che coinvolgono i familiari e i figli nella gestione dell’azienda perché capiscano il valore del lavoro, imparino e sappiano dare continuità nel futuro all’iniziativa imprenditoriale.

Sono questi gli imprenditori che, anche in vari luoghi d’Italia, raccolgono e portano avanti con l’impegno di ogni giorno il prototipo di sviluppo economico olivettiano, che può rappresentare, nell’attuale epoca di transizione e di incertezza di modelli e riferimenti, una solida base per costruire relazioni umane e sociali stabili e proficue, realizzare una Business Transformation di successo e portare sviluppo economico durevole.

Personalmente ho avuto il privilegio di conoscere e lavorare con alcuni di questi imprenditori, ricavando un importante arricchimento umano e professionale, ed è perciò a loro che mi sento di dedicare le mie riflessioni.

 

Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak


BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Sistemi di Gestione e Certificazioni

Attuare le trasformazioni aziendali in modo regolamentato grazie ai Sistemi di Gestione e alle Certificazioni

Sono circa 2,4 milioni nel mondo, di cui 141 mila in Italia, le certificazioni dei Sistemi di Gestione di organizzazioni pubbliche e private. Sistemi di Gestione e Certificazioni secondo i requisiti di standard riconosciuti a livello internazionale sono strumenti in grado di sostenere la crescita e la trasformazione delle aziende.

È notizia di questi giorni (fonte: Accredia - 1° dicembre 2023, ndr) che, secondo la survey periodica pubblicata dall’ISO (l’organizzazione internazionale che dal 1947 raggruppa diversi paesi ed emette norme tecniche internazionali in un vasto ambito di settori della società e dell’economia), l’Italia è il primo paese in Europa e il secondo nel mondo per il numero delle certificazioni dei sistemi di gestione (in particolare per la Qualità, l’Ambiente, la Salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro).

I Sistemi di Gestione sono un complesso di regole e procedure che vengono emesse e applicate in forma volontaria dalle imprese sulla base dei requisiti delle norme ISO di riferimento. Essi rappresentano uno strumento che consente di regolamentare e monitorare efficacemente i processi aziendali, valutando i rischi, le opportunità e le prestazioni delle diverse attività svolte. La certificazione dei Sistemi da parte di organismi indipendenti consente inoltre alle aziende di avere una valutazione periodica sulla validità delle regole applicate e di perseguire il continuo miglioramento delle stesse.

Dagli anni ’90 del secolo scorso, quando hanno iniziato ad apparire le prime certificazioni di Qualità secondo i requisiti della norma ISO 9001, sono cresciuti sia il numero dei certificati sia i settori di applicazione dei Sistemi di Gestione. In particolare, nell’ultimo periodo, l’attenzione delle imprese agli aspetti legati alla sostenibilità e alle sue declinazioni riassunte nell’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) ha indotto le aziende a implementare Sistemi di Gestione Ambientale certificati secondo la norma ISO 14001 e Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza certificati secondo la norma ISO 45001, gestendo le politiche di acquisto in base alla linea guida ISO 20400 sugli acquisti sostenibili.

Altro ambito nel quale le certificazioni stanno prendendo sempre maggiore rilevanza è quello dei Sistemi di Gestione dell’Energia secondo i requisiti della norma ISO 50001 e della prevenzione della corruzione secondo la norma ISO 37001. Un settore nel quale l’Italia è tra i paesi che hanno voluto dotarsi di una specifica regolamentazione è poi quello della parità di genere, attraverso la prassi di riferimento UNI PdR 125 che regolamenta questi aspetti nelle organizzazioni.

In tutti i Sistemi di Gestione che abbiamo citato, come nelle norme ISO alle quali essi fanno riferimento, viene data particolare enfasi agli stakeholder (tutti i soggetti attivamente coinvolti in un’iniziativa, il cui interesse è negativamente o positivamente influenzato dal risultato di quest’ultima e la cui azione o reazione a sua volta influenza l’iniziativa stessa), all’approccio per processi (insiemi di attività che recepiscono elementi in input e producono output determinati), all’analisi dei rischi (risk based thinking) e al problem solving attuato applicando metodologie collegate al Ciclo di Deming P-D-C-A (Plan, Do, Check e Act, metodo che consente un approccio strutturato all’analisi e alla soluzione dei problemi).

Si tratta di buone pratiche che si ritrovano nel project management e che possono essere applicate anche nell’affrontare un progetto di trasformazione aziendale. Inoltre, dotare l’azienda di un complesso di regole strutturate e di strumenti operativi definiti, condivisi e applicati ai diversi livelli dell’organizzazione (ciascuno per il proprio ruolo e le proprie responsabilità), consente di avere in qualsiasi momento la percezione e il controllo dell’andamento dell’impresa e di poterlo adeguare con tempestività e garanzia di risultato ai cambiamenti che si intendono apportare per rendere l’organizzazione più efficiente ed efficace nell’approccio alle sfide del mercato.

Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Sostenibilità e Business Transformation

La Sostenibilità: espressione e veicolo di Business Transformation

Il termine Sostenibilità è tra quelli che, negli ultimi tempi, sono maggiormente oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica e dei mass media. Non parliamo solo di aspetti ambientali, ma anche sociali ed economici, che hanno impatto sull’evoluzione dei mercati e sulle scelte strategiche delle aziende.

Queste brevi riflessioni intendono evidenziare come, parlando di Sostenibilità a livello aziendale, non si può non finire con l’affrontare il tema della Business Transformation, sul quale BluPeak può apportare significativi contributi.

Sostenibilità: di cosa parliamo

Nell’Enciclopedia Treccani la Sostenibilità è definita come la “condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.

Strettamente collegato al concetto di Sostenibilità è quello di Antropocene che definisce l’era geologica che stiamo vivendo (incominciata orientativamente tra la metà del 1800 e l’inizio del ‘900), in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all'aumento delle concentrazioni di CO2 e altri inquinanti nell'atmosfera e non solo.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il concetto di Sostenibilità non è nuovo. Nasce nel 1972, anno della prima conferenza dell’ONU sull’ambiente, ma recentemente oltre a essere stato riportato d’attualità, è stato anche esteso nell’accezione, come dimostra l’Agenda ONU 2030 “Sustainable Goals” (Obiettivi Sostenibili).

Parliamo quindi di Sostenibilità sotto varie forme e aspetti.

Dal punto di vista ambientale viene posto l’accento sull’utilizzo razionale delle risorse naturali e delle materie prime e dell’energia, sviluppando quei processi che sono in grado di ottimizzare il consumo di questi fattori e di consentire il riutilizzo degli scarti e dei rifiuti in modo da ridurre al minimo o addirittura azzerare quanto è necessario smaltire in discarica.

Ogni anno il quantitativo di risorse naturali prodotte dal nostro pianeta viene esaurito in 6-7 mesi. Superato tale “punto di equilibrio”, per la restante parte dell’anno si procede alla sistematica distruzione di preziose risorse per la nostra sopravvivenza. Si capisce quindi quanto sia importante incentivare la cosiddetta “Economia Circolare” e l’innovazione, e quanto molte aziende debbano strutturarsi per operare in tal senso.

Sotto il profilo sociale ed economico, Sostenibilità vuol dire garantire una corretta formazione alle persone, affinché possano integrarsi nel contesto lavorativo godendo di condizioni favorevoli che possano riflettersi sulle loro condizioni di vita. Vuol dire anche assicurare l’eguaglianza di genere nei percorsi di carriera e nel trattamento economico, affinché nel lavoro come nella vita possano sussistere condizioni di giustizia e di serena collaborazione tra gli individui.

La Sostenibilità secondo l’Unione Europea: ESG e CSRD

Anche l’Unione Europea ha voluto declinare il concetto di Sostenibilità, nella sua applicazione all’organizzazione e ai processi aziendali, attraverso la Direttiva n. 2022/2464 (la cosiddetta “Direttiva CSRD Corporate Sustainability Report Directive”), che alla fine del 2022 ha introdotto per le imprese l’obbligo di applicazione del “Reporting di Sostenibilità”, ossia la redazione di un documento nel quale vengono descritte le modalità con cui l’organizzazione aziendale applica i principi di Sostenibilità dal punto di vista ambientale, sociale e di governance (ESG: Environment, Social, Governance).

In realtà, per alcune imprese (ad esempio banche, assicurazioni, società di grandi dimensioni quotate in borsa) esisteva già (in base all’applicazione della Direttiva n. 2014/95) l’obbligo di rilasciare una “Dichiarazione Non Finanziaria” (Non Financial Reporting) per indicare le implicazioni di natura etica del business, integrate nella visione strategica aziendale.

Il concetto di Reporting di Sostenibilità, introdotto con la Direttiva del 2022, ha inteso rafforzare l’importanza e la dignità di questo documento, che assume rilevanza anche dal punto di vista economico e finanziario nella gestione dell’impresa andando a integrare la documentazione inerente al bilancio aziendale (per questo motivo si parla spesso di Bilancio di Sostenibilità).

Nel Reporting di Sostenibilità sono raccolte informazioni (suffragate da dati numerici) relative agli aspetti delle attività aziendali rilevanti ai fini della Sostenibilità come sopra definita.

Nasce quindi nella redazione della documentazione di bilancio aziendale il cosiddetto “principio della doppia materialità” che affianca i dati finanziari a quelli di Sostenibilità (vedere schema seguente).

Quelle sulla Sostenibilità sono informazioni la cui formalizzazione è destinata ad assumere importanza crescente verso i cosiddetti stakeholder, tra cui i soggetti che finanziano l’impresa (banche, fondi di investimento, ecc.) e quelli che ne tutelano i rischi (Assicurazioni). Si tratta di interlocutori per i quali un corretto approccio dell’azienda ai temi citati, formalizzato con un impegno scritto e monitorato nel tempo, rappresenta già da oggi un fattore preferenziale nella concessione di servizi (linee di credito, polizze, ecc.) poiché mitigante dei rischi di discontinuità nel business aziendale.

In base agli studi sugli obblighi derivanti dall’applicazione della Direttiva CSRD in Italia, si prevede che, nel 2024, circa 3000 aziende saranno interessate dalla redazione del Report di Sostenibilità ma, considerando l’impatto che tale necessità avrà sulla catena di fornitura, il numero delle imprese destinate a confrontarsi con queste tematiche sarà sicuramente più elevato. Se infatti un’azienda – pur esente dagli obblighi relativi alla Direttiva CSRD – è fornitrice di un’azienda tenuta a redigere il Report di Sostenibilità, la prima impresa dovrà necessariamente fornire alla seconda una serie di informazioni e di evidenze relative agli aspetti di Sostenibilità delle proprie forniture. L’impatto di questa nuova regolamentazione è quindi destinato a incidere profondamente sul tessuto economico e imprenditoriale italiano.

Le linee guida per la corretta gestione delle informazioni e per la compilazione del Report di Sostenibilità sono in fase di definizione ed emissione. L’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) è l’organismo europeo che raggruppa esperti di finanza provenienti dalle istituzioni dei diversi Paesi e che ha il compito di emanare degli standard di reporting (ESRS) condivisi e dedicati alle diverse tipologie di aziende.

Gli ESRS raccolgono i principi e le linee guida per il reporting di informazioni non finanziarie, compresi i dati relativi alla Sostenibilità. Tali norme hanno lo scopo di rappresentare chiaramente le modalità di comunicazione delle informazioni non finanziarie affinché i diversi stakeholder possano avere chiare le strategie, le modalità di azione e i risultati delle aziende rispetto alla Sostenibilità. Questi documenti saranno disponibili entro il primo semestre 2024 e saranno rivisti almeno ogni tre anni. Di seguito uno schema di architettura della normativa.

Sostenibilità e Business Transformation

Per affrontare correttamente la redazione del Report di Sostenibilità, è opportuna una riflessione da parte della Direzione aziendale sui diversi aspetti di Sostenibilità dell’organizzazione e del business.

Questo processo può essere realizzato in maniera proficua unendo due tecniche note e utilizzate in ambito aziendale: la Due Diligence e la Gap Analysis. Inoltre sarebbe opportuno il coinvolgimento di un Advisor esterno, a garanzia di un’analisi completa e imparziale.

Applicando i principi della Due Diligence, si vanno ad analizzare in dettaglio tutti gli aspetti dell’organizzazione aziendale, dalle procedure operative, agli indicatori, ai risultati di performance, ecc. Quest’analisi deve essere condotta avendo ben presenti i principi di base e le linee guida della CSRD, di cui abbiamo ampiamente parlato. In questo modo sarà facile individuare le carenze, i Gap appunto, che è necessario/opportuno colmare, e definire le azioni conseguenti.

Tali azioni potrebbero, per esempio, essere di tipo formativo, per migliorare le competenze specifiche delle risorse aziendali, oppure di tipo organizzativo per colmare eventuali lacune relative a specifiche funzioni in organigramma.

Non sono poi da trascurare le certificazioni aziendali, sia di prodotto (come Ecolabel, Plastica Seconda Vita, Greenguard, FSC, ecc.) che di sistema (per citarne alcune: ISO 9001, ISO 14001, EMAS, ISO 45001, ISO 50001, ISO 20400, SA 8000, ISO 37001, ecc.), il cui possesso è garanzia di un effettivo impegno dell’azienda nei diversi ambiti della Sostenibilità.

Conclusioni

In conclusione, adempiere al Report di Sostenibilità (o Bilancio di Sostenibilità come viene spesso chiamato), è un impegno che, se affrontato con la giusta predisposizione, può rappresentare per l’impresa un’occasione di riflessione sulla propria storia e sugli indirizzi da perseguire per il futuro, attuando, quando necessario, una Business Transformation virtuosa, attuando nuovi percorsi per il miglioramento delle attività e dell’organizzazione aziendali in modo da essere, oltre che sostenibili, più efficienti e competitivi.

I vantaggi che derivano da scelte di Sostenibilità, dimostrabili con le opportune evidenze e mantenute nel tempo, hanno effetto su diversi aspetti della realtà aziendale, che vogliamo riassumere di seguito, a chiudere questa breve dissertazione.


Andrea Calisti

Business Transformation Expert - Team BluPeak


BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA

Business Analysis

BUSINESS TRANSFORMATION JOURNEY
BUSINESS ANALYSIS 

Ogni desiderio di trasformazione richiede una motivazione, più o meno consapevole, che ci mette in movimento e che ci spinge a uscire dallo stato di cose attuale per porci in cammino verso un nuovo orizzonte di senso. Detta così pare semplice, eppure come mai si fa sempre tanta fatica ad attuare un reale cambiamento? Spesso la causa non risiede tanto nella mancata motivazione e nemmeno nell’assenza di consapevolezza nel volere il cambiamento, quanto nella capacità di tradurre in pratica, di “mettere a terra”, tutti i subbugli interiori per intraprendere un reale cammino di trasformazione. Di rendere concreto ciò che è presente solo in potenza. Si potrebbe addirittura dire che il vero scarto tra una trasformazione riuscita e una abortita risieda proprio in questa capacità di riuscire a dare una forma coerente – quindi ad attraversare un cambiamento di forma, appunto trans-formare – a ciò che in noi è soltanto un’aspirazione ideale. A riuscire a adattare al reale ciò che in noi è un mero proposito, a far diventare un progetto vero e proprio qualcosa che inizialmente è solo un moto d’opposizione rispetto a una situazione che ci sta stretta. Non è proprio questo, tra l’altro, uno dei compiti del project manager, ossia tradurre in realtà i sogni? Per compiere questa opera di traduzione però non basta essere ottimi project manager, ma servono anche altre competenze maggiormente legate all’arte di rendere attuale ciò che è soltanto presente nel mondo delle idee. Il project manager infatti ha la specifica competenza di “portare la nave in porto”, date le consegne iniziali e gli obiettivi preposti; diverso invece è il ruolo di chi deve trasportare sul piano operativo ciò che frulla nella testa altrui, spesso del nostro cliente. Tale arte, spesso accoppiata a quella del project management, ha un nome e tecniche ben precisi: si chiama Business Analysis.

Per prima cosa, prima di parlare di Business Analysis, occorre compiere un distinguo. La Business Analysis non è la Business Analytics. Quest’ultima, ormai ben più nominata e più conosciuta nel mondo dell’Industry 4.0 rispetto alla mera Business Analysis, si riferisce a «the skills, technologies, and practices for continuous iterative exploration and investigation of past business performance to gain insight and drive business planning. Business analytics focuses on developing new insights and understanding of business performance based on data and statistical methods»[1]. La Business Analytics è dunque importantissima e decisiva per analizzare al meglio dati per tradurli in informazioni utili per pianificare e strutturare progetti attraverso ciò che la tecnologia ci mette a disposizione e attraverso, appunto, gli analytics. Essa è decisiva anche per avere ulteriori spunti necessari per compiere un’analisi approfondita dei bisogni dei clienti a partire dalle loro richieste. La Business Analysis invece è una disciplina vecchia tanto quanto l’uomo perché è «a research discipline of identifying business needs and determining solutions to business problems. Solutions often include a software-systems development component, but may also consist of process improvements, organizational change or strategic planning and policy development. The person who carries out this task is called a business analyst or BA»[2]. Potremmo dire che la Business Analysis contiene in sé e si può servire all’occorrenza della Business Analytics, ma che le due non coincidono né si alternano. Sono piuttosto complementari nella buona riuscita di un’opera di investigazione del bisogno del cliente. La Business Analysis (da adesso BA) è proprio quell’arte trasversale che ha come scopo la traduzione in requisiti di progetto dei bisogni degli stakeholder, in primis dei clienti. Pensiamo allo sviluppo di un software. Il ruolo del BA in questo caso è di riuscire a tradurre in informazioni comprensibili al linguaggio del progetto e dei progettisti/programmatori ciò che anima l’intenzione del cliente, il quale può darsi sia totalmente estraneo al mindset informatico e che non mastichi minimamente l’idioma del mondo del software, ma che necessita tuttavia di un servizio di questo tipo per realizzare la propria aspirazione.

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Capiamo bene perciò che il ruolo del BA è un ruolo decisivo e troppo spesso sottovalutato, posto a metà strada tra il commerciale, il quale ha il compito di dare un costo effettivo all’intervento a partire dalla richiesta del cliente, e il project manager, il quale è il titolare della buona riuscita della realizzazione del servizio, del bene o del prodotto. Il ruolo del BA è un ruolo di raccordo, di ascolto e di comunicazione, un ruolo che potremmo definire “maieutico”, ossia ha come fine quello di far emergere un senso concreto e realizzabile a partire da ciò che muove le intenzioni del cliente e allinearlo alle capacità proprie aziendali. Il compito del BA quindi non è affatto facile, stretto spesso tra le pressioni commerciali e le richieste progettuali, ma è l’ago della bilancia tra un lavoro ben riuscito e ben realizzato e uno invece totalmente disallineato rispetto alle reali esigenze del committente o della nostra organizzazione. Quante volte, infatti, ci è capitato di vedere fallire progetti, lavori, esperienze o implementazione di servizi soltanto perché ci sono state incomprensioni di fondo che, se non trattate ma celate, a lungo andare hanno reso instabile il prodotto del nostro sforzo lavorativo? Il BA è anche una figura ibrida, in grado di maneggiare con cura sia competenze tecniche (necessarie per saper tradurre i need in requirement) sia competenze umanistiche (la capacità di ascolto, il sapersi mettere nei panni degli altri, la comunicazione efficace, ecc.), capace di muoversi su più piani e di tenere insieme persone e ruoli differenti tra loro con armonia e integrazione. 

La Business Analysis è una vera e propria disciplina, con le sue tecniche e il suo bagaglio esperienziale, le sue certificazioni (su tutte IIBA-CPAB® e PMI-PBA®) e la sua community. Spesso poco considerata, soprattutto in ambienti aziendali medio-piccoli, rappresenta invece davvero quel quid in più che rende eccellente un’organizzazione rispetto a chi lavora improvvisando o operando solo sull’emergenza. Valore aggiunto imprescindibile per chi ambisce a mettere in piedi reali trasformazioni, la BA è senza dubbio una, se non la disciplina, che più di tutte sarà richiesta in progetti di Business Transformation negli anni a venire. Perciò… lunga vita alla Business Analysis!

 

Alessandro Melioli

[1] Fonte: Wikipedia

[2] Fonte: Wikipedia

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