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Digital Transformation e Business Transformation: due facce della stessa medaglia

Il piano Transizione 5.0 è quasi in dirittura di arrivo ed è destinato a portare nuove risorse economiche a beneficio del mercato dell’Information and Communication Technology (ICT) che appare già piuttosto vivace.

Per sostenere efficacemente un processo di trasformazione digitale è però necessario verificare anche la maturità e le capacità ad accettare questi cambiamenti da parte dell’organizzazione in cui si vogliono implementare le soluzioni digitali.

Dalla Digital Transformation può quindi nascere una Business Transformation… O forse è quest’ultima che consente di applicare con successo la prima.


L’andamento del mercato ICT

Secondo il rapporto “Il Digitale in Italia - 2024” diffuso da Anitec-Assinform, l’associazione del sistema Confindustria che segue le aziende e il mercato dell’Information and Communication Technology (ICT), il mercato digitale italiano nel 2023 ha fatto registrare una crescita del 2,1%, con un valore complessivo di 78,7 miliardi di euro.

I diversi segmenti specifici che compongono il mercato dell’ICT hanno consuntivato però risultati differenti.

I servizi ICT hanno evidenziato un +9%, mentre il settore dei dispositivi e dei sistemi ha mostrato un calo del 4,8%. Andamenti positivi hanno caratterizzato anche i comparti dei software e delle soluzioni ICT (+5,8%) e dei contenuti digitali (+5,5%).

Gli investimenti delle aziende e della PA si sono concentrati principalmente su:

  • soluzioni e servizi cloud per rendere più flessibili e scalabili infrastrutture e applicazioni;

  • strumenti di cybersecurity per la protezione dei dati ai diversi livelli;

  • gestione dei “big data” per migliorare l’utilizzo delle informazioni;

  • intelligenza artificiale per analizzare le informazioni e creare contenuti.

Vista all’orizzonte 2027, la tendenza del mercato appare in costante crescita, sia in valore assoluto, sia rispetto al PIL del Sistema Paese, e nel 2027 è previsto che possa superare i 90 miliardi di euro.

Gestire correttamente

la trasformazione digitale

A fronte di un mercato che appare quindi in crescita e che offre alle aziende soluzioni sempre più sofisticate e innovative, è corretto chiedersi quali siano i presupposti per gestire convenientemente la trasformazione digitale dei processi che, mai come oggi, può risultare “disruptive”.

La risposta è abbastanza chiaramente individuata: per una corretta implementazione di soluzioni e innovazioni digitali è necessario che l’organizzazione e i processi aziendali siano preparati a ricevere e gestire questi nuovi strumenti. Occorre una valutazione preventiva della “readiness” al cambiamento digitale e un’eventuale ristrutturazione del modus operandi.

Prendendo in prestito un’immagine dal mondo rurale, l’azienda che si affaccia a una trasformazione digitale può essere vista come un campo che deve essere opportunamente arato e fertilizzato prima della semina, affinché il raccolto sia abbondante e di qualità.

È bene quindi che l’imprenditore rifletta preliminarmente sullo stato della propria organizzazione e sulla sua preparazione/propensione al cambiamento.

Occorre appurare se in azienda vi sono le giuste competenze per una trasformazione digitale dei processi e integrare le eventuali lacune. È però anche necessario eliminare le resistenze al cambiamento, sostenendo le persone che fanno parte dell’organizzazione e guidandole in modo opportuno attraverso la trasformazione dei processi in cui sono coinvolte, in modo che possano sentirsi parte integrante delle nuove dinamiche e non cadano nell’idea di essere escluse o, peggio, sostituite nelle mansioni dai nuovi sistemi informatici.

Una simile analisi, complessa e articolata, richiede all’imprenditore o al manager che l’affrontano freddezza e serenità di giudizio e di critica, anche del proprio operato; ma soprattutto la capacità di non cedere alla tentazione di pensare che la semplice adozione di un sistema informatico (magari agevolata da incentivi statali che coprono l’investimento) riesca a essere la panacea dei mali dell’azienda, senza capire che questi possono avere radici più profonde e difficili da estirpare.

In questo percorso può essere d’aiuto ricorrere a un supporto esterno di esperti in grado di guardare all’organizzazione in maniera trasparente e senza preconcetti, apportando inoltre un contributo di esperienza derivante dal confronto con diverse e molteplici realtà. 

In sintesi, possiamo affermare che una trasformazione digitale di successo si realizza non solo tramite una scelta ragionata del software o del sistema da acquistare, ma analizzando e plasmando preventivamente il contesto affinché l’introduzione e l’utilizzo dei nuovi strumenti informatici possano essere portati avanti con successo e con continuità nel tempo, creando autenticamente valore per l’impresa.


Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay

Andrea Calisti

Business Transformation Expert


BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Il Leader: chi è (era) costui?

Riflessioni, perché non sono mai abbastanza, sulla figura e sul concetto di Leader e di Leadership, elementi sempre essenziali nel governo delle aziende come nella gestione dei progetti.

Partiamo dai fatti

Se consideriamo la definizione ufficiale del vocabolario Treccani, il concetto di “Leader” è messo in relazione alla politica e allo sport.

Nel primo caso il leader è il capo di un partito, di un movimento d’idee, di un’organizzazione, di un gruppo. Nel secondo caso il leader è il concorrente (atleta o squadra) che è al primo posto in classifica durante la disputa di un campionato o comunque di una gara con più prove, oppure il cavallo che in ogni circostanza corre davanti agli altri, li conduce e serve loro da guida.

Ci perdoneranno gli accademici della Treccani se in questo contesto, e rifacendoci al mondo delle aziende che ben conosciamo, declineremo il concetto di “Leader” in forma diversa.

Innanzitutto, il leader non è (sempre) chi occupa una posizione apicale nell’organizzazione, men che meno il “padrone” o il CEO dell’azienda. Certamente per queste figure la leadership dovrebbe essere una dote innata e necessaria ma, purtroppo, ciò non sempre si verifica.

Il leader dovrebbe necessariamente dare prova di avere ed esercitare le seguenti capacità:

  • conoscenza dell’azienda;

  • conoscenza del prodotto e del mercato;

  • visione a medio/lungo termine;

  • capacità di trasformare la visione in scelte operative coinvolgendo e motivando i collaboratori.

A. Olivetti

Una volta l’imprenditore conosceva i propri collaboratori (dall’ingegnere al semplice operaio) per nome. Aveva ben presente sia le capacità tecniche di ciascuno, sia le singole situazioni familiari e personali, e sapeva impegnarsi per mettere ciascuno nella condizione di rendere al meglio nel lavoro quotidiano. Allo stesso tempo, l’imprenditore autentico, prima di accedere alle funzioni di vertice dell’azienda, faceva una robusta gavetta partendo dal basso, per conoscere e toccare con mano i vari aspetti della produzione. Così è stato, ad esempio, per Adriano Olivetti o, in tempi più recenti, per il compianto Giovanni Alberto Agnelli (che oggi, se non fosse troppo prematuramente scomparso, avrebbe 60 anni). Questa è leadership esercitata a livello delle persone.

L’imprenditore deve conoscere il mercato, quello interno come quello di esportazione e sapere quali scelte compiere non solamente per moltiplicare i dividendi degli azionisti, ma soprattutto per mantenere e creare lavoro e valore d’impresa. A tale proposito ci sembra quanto mai opportuno ricordare nuovamente Adriano Olivetti e la storia della sua azienda che, per contrastare i momenti di crisi e non licenziare, ha costantemente cercato sbocchi in nuovi mercati, rimanendo attenta alle innovazioni di prodotto e alla diversificazione del business (per esempio nel settore dei mobili per ufficio). Allo stesso modo la vision dell’impresa e del contesto è necessario che vada oltre il breve termine e la logica degli incentivi ottenibili dai singoli governi, rimettendo al primo posto la capacità di fare innovazione (di prodotto come di processo) e di gestire il rischio di impresa. Questa è leadership etica.

D. Giacosa

Sulla conoscenza del prodotto e sulla capacità di sviluppare prodotti innovativi e in linea con le aspettative dei clienti, non possiamo non ricordare Dante Giacosa e Vittorio Ghidella, creatori di alcuni tra i modelli più innovativi della Fiat: Topolino, 600, 500, 128, 127, Uno, Croma (con le sorelle Alfa Romeo 164 e Lancia Thema).

Questa è leadership tecnologica.

Foto: Emslichter - Pixabay

Infine, come già accennato, il leader deve proiettarsi nel futuro. Saper guardare alla luna e non al dito e, soprattutto, voler raggiungere la luna e motivare i collaboratori verso questo obiettivo. Su questo concetto calza perfettamente la frase dantesca: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Divina Commedia, XXVI canto dell’Inferno). Questa è probabilmente la dimensione più autentica della leadership.

Leadership: concetto quanto mai essenziale e necessario alle aziende

per esser competitive

Il leader autentico è quindi una persona che, come si dice in gergo giornalistico, è sempre “sul pezzo”, sia nella gestione delle dinamiche interne all’azienda, sia nelle relazioni con il contesto esterno.

Nel progetto, il Project Manager dovrebbe avere le diverse dimensioni della leadership distillate al massimo livello, non solamente per far lavorare correttamente e in modo coordinato verso gli obiettivi comuni i diversi componenti del team di progetto (che spesso sono fisicamente lontani o possono appartenere ad aziende diverse), ma anche per gestire in modo corretto le relazioni con lo “sponsor” e i mutamenti di scenario.  

Le aziende competitive e di eccellenza dovrebbero avere leader veri nelle posizioni strategiche a qualsiasi livello: apicale, ma anche operativo.

La leadership è inoltre una dote fondamentale per poter gestire efficacemente l’ingresso dell’Intelligenza Artificiale nelle organizzazioni, evitando sconvolgimenti di ruoli e di clima aziendale… Ma questa è un’altra storia.

Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay

Andrea Calisti

Business Transformation Expert

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Certificazione PMP® del PMI: testimonianze a favore

BluPeak crede fermamente nel valore della certificazione PMP® (Project Management Professional) del PMI (Project Management Institute), tanto che proprio i percorsi di preparazione per il suo conseguimento sono una delle attività della nostra Academy.

A tal riguardo ci ha fatto molto piacere raccontare la testimonianza di due professionisti divenuti PMP® dopo un percorso curato da BluPeak: Raffaella Battaglia e Mauro Manzetti.

Entrambi lavorano presso Tesar SpA:

Raffaella Battaglia è Delivery Manager e Mauro Manzetti è Chief Operating Officer.

Tesar SpA da più di 30 anni fornisce sistemi per la raccolta dei dati, per la pianificazione, il controllo e la gestione della produzione oltre che della qualità dell’industria.

Raffaella, che lavora con un team di quindici persone, coordinando anche professionisti esterni, ci spiega che «in Tesar, il ruolo del Delivery Manager negli ultimi anni è cambiato, evolvendosi verso una gestione di tipo PMO; significa che al coordinamento si aggiunge la collaborazione, la facilitazione: fornire gli strumenti, le best practice e i template necessari per organizzare e pianificare al meglio la gestione dei progetti. E in effetti è questo il grosso obiettivo che mi do quotidianamente: Kaizen, un miglioramento continuo, per ottenere il quale ho sviluppato, soprattutto dopo il percorso per la certificazione, intelligenza emotiva, soft skill e la capacità di essere “vision oriented”, con un focus quindi sul valore che viene consegnato anziché su ciascun singolo deliverable.»

Il Chief Operating Officer, invece, cioè Mauro, è «il riferimento manageriale di tutti i responsabili di funzione. Il mio principale compito in Tesar è fare in modo che le attività operative si svolgano con fluidità ed efficienza secondo le regole stabilite e applicando la strategia aziendale.» Oltre al coordinamento dei team leader, Mauro si pone come servant leader a supporto di tutti i colleghi, e dunque mette in pratica significative capacità organizzative e di problem solving, oltre che la negoziazione e poi l’active listening, il conflict management e il mentoring, ovvero skill proprie della comunicazione.

Ma proviamo a capire cos’è scattato in loro, tanto da decidere di affrontare il percorso che li avrebbe portati al conseguimento della certificazione PMP®.

«In primis la voglia di migliorarsi», ci dice Mauro. «Noi proponiamo soluzioni software volte a gestire il miglioramento continuo, ed è in quest’ottica, per offrire servizi sempre più validi ai nostri clienti, che abbiamo deciso di intraprendere il percorso per la PMP®. L’altro obiettivo è stato quello di standardizzare le nostre procedure e documentazioni in linea con le migliori pratiche di project management riconosciute a livello internazionale.»

Quando fu proposto il corso per la certificazione, Raffaella aveva appena cambiato ruolo, da PM a manager di un team numeroso. «Ciò rappresentava per me una sfida, ulteriori energie da mettere in gioco, responsabilità, stress e soprattutto tanto lavoro. Il PMP® avrebbe assorbito una consistente dose di queste preziose energie, perciò risposi No grazie, come se avessi accettato!» Purtroppo per lei, però, quest’opzione non era prevista e il suo capo la iscrisse ugualmente…  

I momenti ostici non sono mancati per entrambi e più volte hanno pensato di lasciar perdere: la cosa più gravosa fu, naturalmente, conciliare il già sostenuto ritmo e le responsabilità lavorative con lo studio. «Di aiuto è stato il fatto che abbiamo sempre cercato di studiare in gruppo o comunque di fare sessioni di test insieme», racconta Mauro. Mentre Raffaella, con la sua schiettezza, ci confessa che a mo’ di mantra ripeteva Ma chi me l’ha fatto fare?, e poi «aggiungevo l’accusa Accidenti a te! rivolta al mio capo, a cui avevo spiegato che non sarebbe stata una passeggiata di salute e col quale studiavo di notte via Teams.»

La disponibilità costante da parte dei docenti di BluPeak – a cui Raffaella e Mauro riconoscono grande competenza –, il confronto con loro, i consigli e i suggerimenti ricevuti per arrivare preparati all’esame, oltre che il rapporto instaurato con i colleghi delle altre aziende – un mix fra collaborazione e sana competizione professionale –, sono stati un insieme di elementi che secondo la loro opinione hanno giocato a vantaggio.  

E allora alla fine, dopo, «la soddisfazione per il risultato è stata tanta e lo sforzo fatto è valso assolutamente la pena!». Questa è l’affermazione di Mauro, sulla cui scia Raffaella ci regala un racconto molto personale e coinvolgente.

«Ritrovarsi alla soglia dei cinquant’anni con un ruolo da manager appena assegnato, una famiglia e una bambina di nove anni che, giustamente, richiede tempo e attenzioni, è stata la sfida più grande. Mi ritrovavo a studiare ovunque. Man mano che andavo avanti, però, mi appassionavo agli argomenti e all’idea di ottenere una certificazione così prestigiosa, io che avevo mollato l’università… Ecco, per me rappresentava anche un’opportunità di riscatto! Quasi tutte le sere mia figlia si addormentava con l’immagine della mamma che studiava. Ricordo un giorno in cui ero particolarmente esasperata e sbottai: “Basta! Non ce la faccio più, mollo qui!”. E mia figlia mi disse: “Mamma, e tutto lo studio che hai fatto finora? Vuoi davvero buttarlo nel secchio?!” Fu una bella lezione e soprattutto il giusto stimolo ad andare avanti, per me stessa e per ciò che lei avrebbe voluto vedere in sua madre: una che non molla! Ammetto che quando arrivò il risultato del superamento dell’esame, piansi…»

Sia per Mauro che per Raffaella, già durante il periodo di studio è cambiato il loro approccio agli impegni aziendali di ogni giorno, perché, di fatto, come dice Mauro, «è stato mettere nero su bianco, con procedure anche abbastanza articolate, il lavoro quotidiano. Un processo che ti arricchisce in quanto ti procura gli strumenti per interpretare più approfonditamente ciò che avviene durante le varie fasi di un progetto.»

«Mentre studiavo», ci racconta Raffaella, «si consolidava sempre di più in me il convincimento che i temi della PMP® devono necessariamente essere applicati per ottenere il successo di un progetto. Ho cambiato approccio mettendomi ‘al servizio’ dei miei collaboratori nel facilitare la gestione e la comunicazione fra i vari reparti aziendali. Non a caso, ora professo anche ai nuovi arrivati le tecniche di gestione dei progetti come insegna il PMI.»

Ringraziando ancora Raffaella Battaglia e Mauro Manzetti per il tempo, la disponibilità e la trasparenza, chiediamo loro di salutarci con un invito rivolto a chi fosse titubante nei confronti della certificazione.

«Col senno di poi è più facile dirlo», ammette Raffaella, «ma vi garantisco che è così: l’esame è impegnativo ma fattibile; non occorre imparare a memoria, bensì capire bene i processi e le logiche di base. Consiglio: condensate lo studio evitando di procrastinare l’esame; quindi appena si è studiato tutto, è bene pianificare la data dell’esame e continuare la preparazione con quell’obiettivo. Quando lo raggiungerete, vi sentirete forti e vi verrà voglia di pensare al successivo… Attenzione: crea dipendenza!»

E Mauro: «È sicuramente un percorso oneroso e non banale, ma altrettanto sicuramente accresce la conoscenza e gli strumenti per operare più efficacemente sui progetti. Un suggerimento è quello di ritagliarsi dei tempi tutti i giorni, anche solo mezz’ora, per studiare e fare i test. Credetemi, benché sembri impossibile, citando Gene Wilder vi dico: Si può fare!»

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Proteggere i prodotti dell’ingegno, motore del business aziendale

Il tema della protezione della proprietà intellettuale è di fondamentale importanza al fine di garantire la continuità e l’evoluzione del business aziendale; le aziende che non investono in innovazione, infatti, sono condannate prima o poi a scomparire o a un ruolo marginale nel mercato. Queste considerazioni vogliono stimolare una riflessione sul tema e fornire alcune nozioni di base per orientarsi.


Dallo scooter al panino: gli “inciampi” di alcune grandi aziende

Recentemente sono state pubblicate due notizie che hanno coinvolto importanti aziende, con una posizione di primo piano nei rispettivi settori di attività.

La Corte di Cassazione ha dichiarato «inammissibile» il ricorso di Peugeot Motocycles contro una sentenza della Corte d'Appello di Milano che aveva stabilito la violazione di un brevetto europeo di Piaggio in riferimento al veicolo Peugeot Metropolis e al modello Piaggio MP3. L'entità del danno che Peugeot Motocycles Italia dovrà risarcire a Piaggio, per la quale è ancora pendente un ricorso della marca francese, ammonta a oltre 1 milione di euro.

 

Quasi contemporaneamente è stato reso noto che McDonald's ha perso la possibilità di utilizzare in esclusiva la denominazione e il marchio Big Mac per i suoi hamburger di pollo, poiché è venuta meno al requisito di impiegare il marchio con continuità per cinque anni consecutivi.  Così oggi qualsiasi chiosco potrà vendere panini Big Mac al pollo senza timore di incorrere in controversie legali.

Si tratta di due esempi che riguardano aziende e settori diversi, ma che mettono in luce quanto importante sia, soprattutto nel mondo di oggi e nel mercato globale, proteggere e valorizzare i prodotti dell’ingegno, che consentono alle aziende di sviluppare e, a volte, di far evolvere il proprio modello di business.

Questa dinamica l’aveva già perfettamente chiara Guglielmo Marconi (di cui si celebrano i 150 anni dalla nascita, già ricordati in un altro articolo creerò il link) il quale, prima che a dare rilevanza strettamente accademica e pubblicità alle proprie scoperte, ha mirato a proteggerle con una serie di brevetti.

 Alcuni concetti di base per orientarsi

Per comprendere le dinamiche che ruotano intorno al tema della protezione della proprietà intellettuale, è opportuno chiarire alcuni strumenti di tutela.

Il ‘brevetto’ è un documento, rilasciato a fronte di una domanda circostanziata, che riconosce al beneficiario il diritto esclusivo – limitato nel tempo – di poter disporre e trarre vantaggi economici da una propria idea originale. Il brevetto è applicabile a diversi campi dell’attività accademica e industriale e risponde a specifici requisiti che ne garantiscono la validità: novità, originalità (risultato di un’attività inventiva) e industrialità.

  • Novità: un’invenzione è considerata nuova se non è già compresa nello stato dell’arte della tecnica, cioè in tutto ciò che è pubblico e accessibile (in Italia o in altri Paesi) prima della data di deposito della domanda di brevetto. La diffusione può realizzarsi ad esempio mediante divulgazione scritta o orale, una utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo (es.: la pubblicazione dei concetti sull’invenzione in un giornale scientifico, la presentazione in una conferenza, l’utilizzo in ambito commerciale, l’esposizione in un catalogo).

  • Attività inventiva: il requisito è rispettato se, per una persona esperta del settore, la scoperta non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica. L’attributo della non ovvietà intende assicurare che i brevetti siano concessi solo a risultati che derivano da un processo inventivo o creativo.

  • Industrialità: l’idea oggetto di brevetto deve avere un’applicazione in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola. L’invenzione non può pertanto essere frutto di un semplice processo intellettuale, ma deve essere tecnicamente realizzabile e capace di condurre a un risultato immediato nell’ambito della tecnica industriale generando effetti pratici.

Ci sono poi alcuni prodotti dell’ingegno che non sono brevettabili, come:

  • le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici;

  • i metodi per il trattamento chirurgico, terapeutico o di diagnosi del corpo umano o animale;

  • i piani, i principi e i metodi per attività intellettuale, per gioco o per attività commerciali;

  • i programmi per elaboratori (software) in quanto tali, per i quali vale comunque il diritto d’autore;

  • le presentazioni di informazioni;

  • le razze animali e alcuni procedimenti biologici per l’ottenimento delle stesse;

  • le varietà vegetali.

Il brevetto è applicabile, nei limiti dei requisiti sopra elencati, a qualsiasi invenzione industriale, ma anche ai cosiddetti “modelli di utilità”, cioè a modifiche di oggetti noti come, per esempio, macchinari o parti di essi, strumenti, utensili, ecc., che conferiscono loro una particolare efficacia o una maggiore utilità o un’aumentata comodità d'uso.

Il marchio è un segno che consente a un’azienda di essere identificata o distinguere i propri prodotti o servizi da quelli delle aziende concorrenti. Un marchio può contenere, ad esempio, disegni, immagini, parole o lettere e avere diverse combinazioni di colore. Possono essere compresi in un marchio anche suoni e forme di prodotti o packaging, tonalità cromatiche o loro combinazioni.

Affinché un marchio sia registrabile deve rispondere ai seguenti requisiti:

  • novità: il marchio deve essere nuovo, ossia non avere caratteri di identità o similitudine con marchi già depositati, con segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi del commercio, come, a titolo esemplificativo: ditta, denominazione, ragione sociale, insegna o nome a dominio aziendali;

  • capacità distintiva: il marchio non deve identificarsi con la denominazione generica del prodotto o del servizio che contraddistingue o con altri segni distintivi già utilizzati da altri;

  • liceità: il marchio depositato non deve essere contrario all'ordine pubblico e al buon costume; non deve ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o dei servizi; non deve costituire violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.

 Brevettare e registrare sì, ma cum grano salis

Il deposito di una domanda di brevetto o la registrazione di un marchio protegge il detentore dall’utilizzo dell’idea e del logo da parte di altri, ma prima di avventurarsi nel deposito di una domanda di brevetto o nella richiesta di registrazione di un marchio è opportuno tenere presenti alcune considerazioni.

Innanzitutto, il brevetto non ha una durata infinita. L’esclusiva per lo sfruttamento economico dell’idea è concessa al titolare del brevetto per 20 anni non rinnovabili, dopo di che qualsiasi soggetto ha il diritto di utilizzare il brevetto senza essere esposto al rischio di controversie legali. Per questo, se lo sfruttamento dell’invenzione ha un orizzonte temporale più lungo, meglio optare per la strategia del “segreto industriale”.

Couleur - Pixabay

Emblematica è al riguardo la formula della Coca Cola, mai brevettata ma custodita gelosamente dall’azienda che provvede direttamente presso la sede di Atlanta alla preparazione dell’ingrediente base e al suo invio agli stabilimenti di imbottigliamento sparsi nel mondo, dove avviene la diluizione e l’aggiunta di gas.

Altro aspetto, spesso sottovalutato, è che il brevetto non fornisce una protezione automatica. In caso di sospetta violazione è responsabilità dell’azienda che si sente danneggiata intentare una causa legale verso il presunto “contraffattore”, come dimostra il caso Piaggio-Peugeot.

Infine, la validità di un brevetto è legata all’area geografica per cui si richiede la registrazione dell’idea. Esistono brevetti italiani, europei, mondiali o limitati a determinati Paesi.

Poiché i tempi e soprattutto i costi di deposito del brevetto dipendono dai Paesi per i quali si chiede la protezione dell’idea, è opportuno aver chiaramente definito una strategia commerciale e di orientamento al mercato, prima di presentare la domanda, ricordando comunque che l’area geografica di validità di un brevetto può essere estesa entro precisi termini temporali dalla presentazione della prima domanda (in altre parole, un brevetto valido in Italia può essere successivamente esteso ai paesi dell’UE).

Da non dimenticare infine che il mantenimento di un brevetto nei 20 anni di validità è subordinato al pagamento di tasse annuali.

Jürgen Polle - Pixabay

Riguardo ai marchi valgono più o meno le medesime considerazioni fatte per i brevetti. Una differenza importante è che la protezione e l’esclusivo utilizzo fornito dalla registrazione di un marchio possono essere rinnovati periodicamente senza limiti di tempo. Come accaduto a Mc Donald’s, però, il marchio deve essere utilizzato. Il non utilizzo per un periodo di cinque anni, come già detto, comporta la decadenza dei diritti di registrazione e di uso esclusivo.

In fase di valutazione della domanda di registrazione di un marchio, le aziende che ritengono di essere vittima di abuso possono presentare istanza di opposizione alla registrazione.



È quanto accaduto alla Cantina Muggittu, azienda vinicola sarda, che ha vinto una battaglia legale contro la multinazionale austriaca titolare del marchio Red Bull, che l’accusava di "violazione del marchio e di concorrenza sleale" per aver copiato il proprio marchio.

La contestazione del colosso dell'energy drink, in opposizione alla richiesta di registrazione del marchio da parte del produttore di vino, è stata respinta dalla Direzione Generale per la tutela della proprietà industriale del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, così il logo potrà continuare a essere usato per i vini Muggittu Boeli.

 Brevetti e marchi: testimonial della capacità di innovazione e della forza di un’azienda

La capacità di innovazione è da sempre segno della vitalità di un’azienda, come di un “sistema Paese”. È nei centri di ricerca e sviluppo che si crea la capacità competitiva e si pongono le premesse per la creazione di prodotti di successo in grado di soddisfare le esigenze dei diversi mercati e di garantire i volumi produttivi in grado di far prosperare le fabbriche.

Allo stesso modo, il segno distintivo con cui un prodotto è presente nel mercato (il marchio o logo, per intenderci) è uno strumento in grado di attrarre e fidelizzare il cliente creando a volte uno status; per dare un’idea, pensiamo al noto logo della mela.

Fondamentale diventa quindi per le aziende individuare i settori in cui concentrare la ricerca e programmare adeguati investimenti per sostenere le attività e le figure a essa collegate.

La spinta all’innovazione è il carburante che fornisce la giusta propulsione al business aziendale e gli permette di consolidarsi nelle aree di forza e di svilupparsi verso nuovi orizzonti.

Non investire in ricerca e innovazione equivale a condannarsi a una posizione di marginalità nel mercato e, prima o poi, a scomparire.

Foto di copertina: Pete Linforth - Pixabay

Andrea Calisti

Business Transformation Expert

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Il coaching e il pensiero di Marco Aurelio

È possibile un parallelo stoico?


Abbiamo provato a cogliere, e quindi a proporla nel testo che segue, una simmetria tra il pensiero filosofico di Marco Aurelio, appartenente a secoli e secoli fa, e il coaching.

Partendo da un’idea di Mattia Zini, studente del corso ‘Gestione digitale d’impresa’ presso l’ITS Maker e tirocinante in BluPeak, è arricchente e stimolante vedere le conclusioni a cui giungono lui e un’addetta ai lavori, ovvero Enrica Nardi, Business Coach del Team BluPeak.

Marco Aurelio e lo stoicismo: dal libro “Marco Aurelio (pensieri)”

Foto free Pixabay

Grazie a un breve inquadramento storico che ci suggerisce Mattia, sappiamo che «Marco Aurelio, adottato dall’imperatore Antonino Pio e succedutogli sul trono imperiale nel 161 d.C., è passato alla storia come sovrano illuminato. Fu un valente filosofo, ultimo dei grandi esponenti dello stoicismo, e la sua opera "Marco Aurelio (pensieri)" è una raccolta di note e riflessioni personali, praticamente il suo diario personale.

Il documento consiste principalmente nei pensieri introspettivi di Marco Aurelio mirati al miglioramento personale e alla gestione delle sfide della vita, in cui enfatizza l'autosufficienza, la ragione e l'accettazione del destino.

Sebbene "Marco Aurelio (pensieri)" non definisca esplicitamente i principi stoici, li mostra in azione. L’autore ripete spesso l’importanza di controllare i propri pensieri e le reazioni, di concentrarsi su ciò che è sotto il proprio controllo, accettando ciò che invece non lo è.

Il testo mette in rilievo la virtù come elemento centrale dello stoicismo. Marco Aurelio evidenzia il valore della giustizia, dell'autocontrollo, del coraggio e della saggezza per condurre una vita appagante. Le sue riflessioni suggeriscono che allinearsi con la natura e la ragione è fondamentale per raggiungere la pace interiore e la felicità.»

Ma cos’è il coaching?

Mattia ci ripropone la definizione che ne dà l’ICF – International Coach Federation: “Il coaching è una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale”.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

«Il coaching, quindi, è lo strumento per chi vuole capire il nuovo ruolo che si va definendo, trovare le motivazioni e le attitudini necessarie, accedere a nuove risorse interiori e sviluppare ulteriori competenze.

Il coaching, in definitiva, è “cambiamento generativo” e “sviluppo personale”. L’attività di coaching è focalizzata su come “pensare meglio” e “reagire meglio emotivamente” all’ambiente circostante, con lo scopo finale di potenziare le aree di interesse personale e/o aziendale.

Alcune aree migliorabili con il coaching sono l’abilità, la capacità e la motivazione nell’apprendere nuove skill; la capacità di definire e ridefinire il proprio ruolo in azienda e nel contesto di lavoro; la capacità di focalizzazione costante su ambiti di competenze vecchie e nuove; la flessibilità nell’incorporare un nuovo sistema di princìpi e valori aziendali; aumentare la propria efficacia.

In quest’ottica, il coach diventa la persona che aiuta e facilita, durante la difficile fase di transizione dal vecchio al nuovo, il processo di rinascita della persona all’interno del mutato contesto aziendale.»

A tal proposito è utile l’annotazione di Enrica: «Il termine coach risale al XV secolo: Kocs era un villaggio ungherese a nord di Budapest, rinomato per la produzione di un nuovo tipo di carrozza. In seguito la parola coche (dal francese antico) indicava un mezzo di trasporto, rapido ed efficiente, trainato dai cavalli, che si diffuse nel resto d'Europa.

La carrozza è quindi un’utile metafora per comprendere il percorso affrontato da un cliente e può essere visto come un viaggio di apprendimento e consapevolezza, da un punto di partenza, definito situazione attuale, a uno di arrivo, detto situazione ideale.»

 Il parallelo

Ispirato dalle sue letture, dunque, Mattia ipotizza una comparazione tra il coaching e alcuni princìpi espressi in “Marco Aurelio (pensieri)”.

«Se da una parte il coaching valorizza la partnership con il cliente e il suo ruolo attivo nel processo di miglioramento, similmente Marco Aurelio sottolinea ripetutamente l’importanza del controllo individuale sui propri pensieri e sulle azioni: Il principio sovrano dentro di noi, quando si trovi conforme a natura, ha verso gli eventi una disposizione tale che può sempre facilmente mutarla in relazione a ciò che è possibile e concesso (Libro IV, 1).

E come il coaching aiuta a “pensare meglio” e “reagire meglio emotivamente” al presente, altrettanto Marco Aurelio incoraggia a concentrarsi sul presente: Questo tempo presente concedilo a te stesso (Libro VIII, 44).

Ancora, come il coaching si focalizza sul raggiungimento di obiettivi specifici e sul miglioramento progressivo, così pure Marco Aurelio, in linea con la filosofia stoica, promuove l’accettazione di ciò che non è controllabile e la pratica costante della virtù: Sia sempre ben chiaro che laggiù, in campagna, è all'incirca come qui, e come tutto, qui, sia lo stesso che in cima a un monte o in riva al mare o dove credi (Libro VIII, 23).

E infine il coaching non tratta patologie psicologiche, ma aiuta chi sta bene a stare meglio. Marco Aurelio, similmente, pone l’accento sul peso della ragione nel guidare le azioni: Punto per punto, a ogni singola cosa che fai, soffermati a riflettere e domandati se la morte sia temibile perché ti priva di quella cosa (Libro VIII, 29).»

 Le conclusioni

Per Mattia dunque, «pur non essendoci una trattazione specifica del coaching in relazione a Marco Aurelio, è possibile notare delle similitudini tra alcuni princìpi del coaching e il pensiero stoico da lui espresso: entrambi, infatti, enfatizzano la responsabilità individuale, il controllo sui propri pensieri, la focalizzazione sul presente, l’accettazione e la pratica della virtù.»

A supporto di tutto quanto fin qui espresso, e calato nella realtà aziendale, leggiamo quanto ci propone Enrica, quasi a suggello delle considerazioni di Mattia:

«Marco Aurelio ha sicuramente fornito insegnamenti rilevanti nel contesto del coaching. La sua idea di concentrarsi sulle cose che possiamo controllare, come le nostre azioni e le nostre reazioni agli eventi, anziché perdere energia su ciò che è al di fuori del nostro potere, è fondamentale nel coaching. Ci insegna a riconoscere ciò che è in nostro potere e a lasciar andare ciò che non lo è; ci invita a vivere nel momento presente e a comprendere che la felicità risiede nel come utilizziamo la nostra mente e il nostro cuore, in connessione con la nostra Anima.

In BluPeak, quando iniziamo un percorso di business coaching con le aziende, incoraggiamo le persone a sviluppare un senso di respons-abilità personale e a focalizzarsi su ciò che possono cambiare, adottando nuove prospettive per affrontare i problemi in modo più efficace.

Marco Aurelio considerava gli ostacoli come parte naturale della vita e invitava ad affrontarli con determinazione e resilienza: anche questo concetto è prezioso nel coaching, dove le difficoltà sono occasioni per crescere, imparare e sviluppare nuove competenze.

Attraverso l’arte del coaching e la saggezza di Marco Aurelio, possiamo considerare le difficoltà come opportunità e trasformare la nostra visione del mondo attraverso l’osservazione e l’interpretazione del circostante.

Lo scopo è divenire sempre più coscienti che ognuno di noi guarda la realtà attraverso un punto di vista unico e irripetibile e che le nostre azioni e i nostri stati d’animo nascono da questo modo individuale di osservare.

Ed è proprio l’attaccamento e la difesa di una convinzione in merito alla realtà che genera la maggior parte di difficoltà e dei conflitti che incontriamo nella nostra vita.

Il coaching, ispirato anche dal pensiero filosofico di Marco Aurelio, diventa un viaggio trasformativo di profonda introspezione.

Negli ultimi decenni, all'interno di organizzazioni e aziende si sta affermando un nuovo modello di leadership, capace di inglobare le competenze relazionali proprie della metodologia del coaching, per gestire in maniera più efficace una discussione, un progetto, un team, l’azienda stessa.

Le opportunità che un manager ha per utilizzare l’approccio di coaching sono molteplici e riguardano la gestione del suo team, lo sviluppo dei suoi collaboratori, la condivisione di attività e responsabilità, la capacità di comunicazione, l’ascolto e il feedback e così via.

In quest’ottica, il “leader coach” può diventare un elemento catalizzatore di innovazione della cultura aziendale che ispira e motiva sé stesso, la sua squadra e la sua azienda verso risultati concreti di miglioramento.

Immagina di essere in una sessione di coaching dove la saggezza millenaria di Marco Aurelio risuona attraverso le parole del tuo coach, e dove, come gli antichi stoici, impari a mantenere la calma in mezzo al caos e a trovare la forza interiore per affrontare le sfide della tua vita…»

 

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

I COSTI NASCOSTI

Scoprire e gestire i costi nascosti, liberare risorse finanziarie per potenziare il business


Primavera, stagione di rinascita, di allergie ma anche di scadenze fiscali. Cogliamo quindi l’occasione per una riflessione sui costi aziendali e sulla loro ottimizzazione, che consente di liberare risorse per potenziare le attività e guidare l’impresa verso un futuro di successo.

Ma quanto costa un’azienda?

Per ogni imprenditore, avere costantemente presente l’entità dei costi aziendali, saper valutare, gestire e migliorare le diverse attività che assorbono le risorse finanziarie dell’azienda è un compito fondamentale per garantire la sostenibilità economica dell’impresa e assicurarne la continuità e la crescita futura.

Quando si parla di costi aziendali, si è subito portati a pensare alle classiche categorie che vengono normalmente riportate nei testi di management aziendale: costi fissi, costi variabili, costi diretti e indiretti. Vi è però anche un’altra tipologia di costi, particolarmente insidiosa, che spesso viene a torto trascurata perché più difficile da contestualizzare, quella dei cosiddetti costi nascosti.

Si tratta di spese non evidenti, né facilmente individuabili nella gestione dell’organizzazione aziendale e che, accumulandosi nel tempo, appesantiscono il bilancio e minano la competitività dell’azienda senza che il management ne sia consapevole.

Taiichi Ōhno: chi era costui?

Ohno-Taiichi - Fonte: Wikipedia

Probabilmente questo nome non vi dirà nulla. Appartiene a un distinto signore nato in Cina nel 1912 e vissuto in Giappone, che è stato ingegnere di produzione alla Toyota e che è considerato tra i principali teorici della Lean Production.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, due aspetti preoccupavano gli industriali giapponesi, impegnati anche loro nella ricostruzione post bellica: la mancanza di materie prime e la mancanza di spazio.

Si andarono perciò consolidando princìpi, metodi e tecniche per la gestione dei processi operativi basati sulla sistematica riduzione degli sprechi e sull’utilizzo ottimale delle risorse a disposizione.

L’obiettivo da raggiungere era fare sempre di più con sempre di meno:

  • meno tempo;

  • meno spazio;

  • meno sforzo;

  • meno macchine;

  • meno materiali.

Ciò non voleva dire tagliare indiscriminatamente i costi (come purtroppo avviene oggi in alcune realtà), ma andare a cercare le cause di spreco e ridurle al minimo o eliminarle.

A riguardo, Taiichi Ōhno, attraverso meticolose indagini basate sull’attenta osservazione dei processi e della loro organizzazione (“Vai in officina e osserva” era il suo motto), ha contribuito alla declinazione e all’applicazione dei principi di base della filosofia Lean:

  • Valore: il punto di partenza è sempre la definizione del valore secondo la prospettiva del cliente. Valore è solo ciò che il cliente è disposto a pagare, tutto il resto è spreco e va eliminato.

  • Mappatura: per eliminare gli sprechi occorre saperli misurare, mappare il flusso del valore, ovvero delineare tutte le attività in cui si articola il processo operativo, distinguendo tra quelle a valore aggiunto e quelle non a valore aggiunto, che possono rivelarsi dannose per l’organizzazione.

  • Flusso: è il processo di creazione del valore che è visto come un flusso, che deve scorrere in modo continuo, riducendo al minimo i tempi di attesa e di attraversamento (lead time) del materiale.

  • Produzione ‘tirata’: soddisfare il cliente significa produrre solo quello che vuole, solo quando lo vuole e solo quanto ne vuole La produzione è così ‘tirata’ dal cliente, anziché ‘spinta’ da chi produce.

  • Perfezione: è il punto di riferimento a cui si deve tendere attraverso il miglioramento continuo e progressivo dei processi (Kaizen) e la completa eliminazione degli sprechi.

Grazie a queste teorie e alle metodologie per applicarle, è possibile soddisfare clienti esigenti, gestire tecnologie complesse e garantire elevata flessibilità in tempi ridotti.

I sette Muda: mantra del buon imprenditore

Poster originale del film - Fonte: Wikipedia

Nel 1954 Akira Kurosawa realizzava la pellicola “I sette samurai”, ambientata nel Giappone del XVI secolo, che narra la storia di un gruppo di contadini che si affidano a sette Rōnin (Samurai) per difendersi dai soprusi e dai saccheggi di una banda di briganti.

Più o meno nello stesso periodo Taiichi Ōhno diffondeva la teoria dei sette sprechi (Muda in giapponese), anche questi dei “briganti” che saccheggiano le risorse dell’azienda.

Muda può essere considerato qualsiasi utilizzo di risorse che non aggiunge valore alle aspettative del cliente.

 

 



In particolare, secondo Ōhno, sette sono le tipologie di sprechi da individuare e combattere:

  • Sovrapproduzione: produrre più del necessario a coprire gli ordini pervenuti dai clienti;

  • Attese: perdere tempo nell’aspettare materiali o informazioni per realizzare la produzione;

  • Trasporto: trasferire materiali o semilavorati da un luogo a un altro, spesso lontani, per poter completare la realizzazione dei prodotti (in pratica avere una supply chain e un flusso logistico non ottimizzati);

  • Perdite di processo: inefficienze e sprechi di risorse dovuti alla gestione non ottimale di processi complessi;

  • Scorte: è una voce di costo, quella del magazzino, che può diventare critica sia per il cosiddetto eccesso di inventario (over stock), sia per l’impatto dell’obsolescenza dei prodotti o i danneggiamenti nella loro manipolazione;

  • Movimenti: avere postazioni di lavoro e layout non ottimizzati dal punto di vista dell’ergonomia e dei flussi può portare a maggiore tempo per fare le operazioni, rischio di errore, minore efficienza e ridotta qualità del lavoro;

  • Difetti: realizzare prodotti che non rispettano i requisiti di qualità e che hanno difetti che ne impediscono la vendita o, peggio, che costringono il cliente a dover restituire il prodotto acquistato per la sua riparazione o sostituzione.

È compito dell’imprenditore che gestisce l’azienda con lo spirito del “buon padre di famiglia” mettere in campo le energie necessarie per identificare queste falle nell’organizzazione e porvi rimedio.

Per la caccia ai Muda è importante il coinvolgimento dei vari livelli dell’organizzazione, fino agli operatori di linea, e l’ascolto dei loro suggerimenti, atteggiamento fondamentale anche per la motivazione delle risorse, altro aspetto positivo per il buon funzionamento dell’azienda.

Conclusioni: eliminiamo gli sprechi e trasformiamo positivamente il business aziendale

Eliminare gli sprechi, come detto, porta a migliorare le condizioni di lavoro, ma anche a liberare risorse finanziarie che possono essere reinvestite in azienda. Questo investimento diventa valore aggiunto se quanto economizzato viene utilizzato, ad esempio, per la modernizzazione di macchinari o il miglioramento delle postazioni di lavoro, ma anche per programmi di formazione e miglioramento delle competenze, al fine di valorizzare il capitale umano.




Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay




Andrea Calisti

Business Transformation Expert

 

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