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Certificazione PMP® del PMI: testimonianze a favore

BluPeak crede fermamente nel valore della certificazione PMP® (Project Management Professional) del PMI (Project Management Institute), tanto che proprio i percorsi di preparazione per il suo conseguimento sono una delle attività della nostra Academy.

A tal riguardo ci ha fatto molto piacere raccontare la testimonianza di due professionisti divenuti PMP® dopo un percorso curato da BluPeak: Raffaella Battaglia e Mauro Manzetti.

Entrambi lavorano presso Tesar SpA:

Raffaella Battaglia è Delivery Manager e Mauro Manzetti è Chief Operating Officer.

Tesar SpA da più di 30 anni fornisce sistemi per la raccolta dei dati, per la pianificazione, il controllo e la gestione della produzione oltre che della qualità dell’industria.

Raffaella, che lavora con un team di quindici persone, coordinando anche professionisti esterni, ci spiega che «in Tesar, il ruolo del Delivery Manager negli ultimi anni è cambiato, evolvendosi verso una gestione di tipo PMO; significa che al coordinamento si aggiunge la collaborazione, la facilitazione: fornire gli strumenti, le best practice e i template necessari per organizzare e pianificare al meglio la gestione dei progetti. E in effetti è questo il grosso obiettivo che mi do quotidianamente: Kaizen, un miglioramento continuo, per ottenere il quale ho sviluppato, soprattutto dopo il percorso per la certificazione, intelligenza emotiva, soft skill e la capacità di essere “vision oriented”, con un focus quindi sul valore che viene consegnato anziché su ciascun singolo deliverable.»

Il Chief Operating Officer, invece, cioè Mauro, è «il riferimento manageriale di tutti i responsabili di funzione. Il mio principale compito in Tesar è fare in modo che le attività operative si svolgano con fluidità ed efficienza secondo le regole stabilite e applicando la strategia aziendale.» Oltre al coordinamento dei team leader, Mauro si pone come servant leader a supporto di tutti i colleghi, e dunque mette in pratica significative capacità organizzative e di problem solving, oltre che la negoziazione e poi l’active listening, il conflict management e il mentoring, ovvero skill proprie della comunicazione.

Ma proviamo a capire cos’è scattato in loro, tanto da decidere di affrontare il percorso che li avrebbe portati al conseguimento della certificazione PMP®.

«In primis la voglia di migliorarsi», ci dice Mauro. «Noi proponiamo soluzioni software volte a gestire il miglioramento continuo, ed è in quest’ottica, per offrire servizi sempre più validi ai nostri clienti, che abbiamo deciso di intraprendere il percorso per la PMP®. L’altro obiettivo è stato quello di standardizzare le nostre procedure e documentazioni in linea con le migliori pratiche di project management riconosciute a livello internazionale.»

Quando fu proposto il corso per la certificazione, Raffaella aveva appena cambiato ruolo, da PM a manager di un team numeroso. «Ciò rappresentava per me una sfida, ulteriori energie da mettere in gioco, responsabilità, stress e soprattutto tanto lavoro. Il PMP® avrebbe assorbito una consistente dose di queste preziose energie, perciò risposi No grazie, come se avessi accettato!» Purtroppo per lei, però, quest’opzione non era prevista e il suo capo la iscrisse ugualmente…  

I momenti ostici non sono mancati per entrambi e più volte hanno pensato di lasciar perdere: la cosa più gravosa fu, naturalmente, conciliare il già sostenuto ritmo e le responsabilità lavorative con lo studio. «Di aiuto è stato il fatto che abbiamo sempre cercato di studiare in gruppo o comunque di fare sessioni di test insieme», racconta Mauro. Mentre Raffaella, con la sua schiettezza, ci confessa che a mo’ di mantra ripeteva Ma chi me l’ha fatto fare?, e poi «aggiungevo l’accusa Accidenti a te! rivolta al mio capo, a cui avevo spiegato che non sarebbe stata una passeggiata di salute e col quale studiavo di notte via Teams.»

La disponibilità costante da parte dei docenti di BluPeak – a cui Raffaella e Mauro riconoscono grande competenza –, il confronto con loro, i consigli e i suggerimenti ricevuti per arrivare preparati all’esame, oltre che il rapporto instaurato con i colleghi delle altre aziende – un mix fra collaborazione e sana competizione professionale –, sono stati un insieme di elementi che secondo la loro opinione hanno giocato a vantaggio.  

E allora alla fine, dopo, «la soddisfazione per il risultato è stata tanta e lo sforzo fatto è valso assolutamente la pena!». Questa è l’affermazione di Mauro, sulla cui scia Raffaella ci regala un racconto molto personale e coinvolgente.

«Ritrovarsi alla soglia dei cinquant’anni con un ruolo da manager appena assegnato, una famiglia e una bambina di nove anni che, giustamente, richiede tempo e attenzioni, è stata la sfida più grande. Mi ritrovavo a studiare ovunque. Man mano che andavo avanti, però, mi appassionavo agli argomenti e all’idea di ottenere una certificazione così prestigiosa, io che avevo mollato l’università… Ecco, per me rappresentava anche un’opportunità di riscatto! Quasi tutte le sere mia figlia si addormentava con l’immagine della mamma che studiava. Ricordo un giorno in cui ero particolarmente esasperata e sbottai: “Basta! Non ce la faccio più, mollo qui!”. E mia figlia mi disse: “Mamma, e tutto lo studio che hai fatto finora? Vuoi davvero buttarlo nel secchio?!” Fu una bella lezione e soprattutto il giusto stimolo ad andare avanti, per me stessa e per ciò che lei avrebbe voluto vedere in sua madre: una che non molla! Ammetto che quando arrivò il risultato del superamento dell’esame, piansi…»

Sia per Mauro che per Raffaella, già durante il periodo di studio è cambiato il loro approccio agli impegni aziendali di ogni giorno, perché, di fatto, come dice Mauro, «è stato mettere nero su bianco, con procedure anche abbastanza articolate, il lavoro quotidiano. Un processo che ti arricchisce in quanto ti procura gli strumenti per interpretare più approfonditamente ciò che avviene durante le varie fasi di un progetto.»

«Mentre studiavo», ci racconta Raffaella, «si consolidava sempre di più in me il convincimento che i temi della PMP® devono necessariamente essere applicati per ottenere il successo di un progetto. Ho cambiato approccio mettendomi ‘al servizio’ dei miei collaboratori nel facilitare la gestione e la comunicazione fra i vari reparti aziendali. Non a caso, ora professo anche ai nuovi arrivati le tecniche di gestione dei progetti come insegna il PMI.»

Ringraziando ancora Raffaella Battaglia e Mauro Manzetti per il tempo, la disponibilità e la trasparenza, chiediamo loro di salutarci con un invito rivolto a chi fosse titubante nei confronti della certificazione.

«Col senno di poi è più facile dirlo», ammette Raffaella, «ma vi garantisco che è così: l’esame è impegnativo ma fattibile; non occorre imparare a memoria, bensì capire bene i processi e le logiche di base. Consiglio: condensate lo studio evitando di procrastinare l’esame; quindi appena si è studiato tutto, è bene pianificare la data dell’esame e continuare la preparazione con quell’obiettivo. Quando lo raggiungerete, vi sentirete forti e vi verrà voglia di pensare al successivo… Attenzione: crea dipendenza!»

E Mauro: «È sicuramente un percorso oneroso e non banale, ma altrettanto sicuramente accresce la conoscenza e gli strumenti per operare più efficacemente sui progetti. Un suggerimento è quello di ritagliarsi dei tempi tutti i giorni, anche solo mezz’ora, per studiare e fare i test. Credetemi, benché sembri impossibile, citando Gene Wilder vi dico: Si può fare!»

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Proteggere i prodotti dell’ingegno, motore del business aziendale

Il tema della protezione della proprietà intellettuale è di fondamentale importanza al fine di garantire la continuità e l’evoluzione del business aziendale; le aziende che non investono in innovazione, infatti, sono condannate prima o poi a scomparire o a un ruolo marginale nel mercato. Queste considerazioni vogliono stimolare una riflessione sul tema e fornire alcune nozioni di base per orientarsi.


Dallo scooter al panino: gli “inciampi” di alcune grandi aziende

Recentemente sono state pubblicate due notizie che hanno coinvolto importanti aziende, con una posizione di primo piano nei rispettivi settori di attività.

La Corte di Cassazione ha dichiarato «inammissibile» il ricorso di Peugeot Motocycles contro una sentenza della Corte d'Appello di Milano che aveva stabilito la violazione di un brevetto europeo di Piaggio in riferimento al veicolo Peugeot Metropolis e al modello Piaggio MP3. L'entità del danno che Peugeot Motocycles Italia dovrà risarcire a Piaggio, per la quale è ancora pendente un ricorso della marca francese, ammonta a oltre 1 milione di euro.

 

Quasi contemporaneamente è stato reso noto che McDonald's ha perso la possibilità di utilizzare in esclusiva la denominazione e il marchio Big Mac per i suoi hamburger di pollo, poiché è venuta meno al requisito di impiegare il marchio con continuità per cinque anni consecutivi.  Così oggi qualsiasi chiosco potrà vendere panini Big Mac al pollo senza timore di incorrere in controversie legali.

Si tratta di due esempi che riguardano aziende e settori diversi, ma che mettono in luce quanto importante sia, soprattutto nel mondo di oggi e nel mercato globale, proteggere e valorizzare i prodotti dell’ingegno, che consentono alle aziende di sviluppare e, a volte, di far evolvere il proprio modello di business.

Questa dinamica l’aveva già perfettamente chiara Guglielmo Marconi (di cui si celebrano i 150 anni dalla nascita, già ricordati in un altro articolo creerò il link) il quale, prima che a dare rilevanza strettamente accademica e pubblicità alle proprie scoperte, ha mirato a proteggerle con una serie di brevetti.

 Alcuni concetti di base per orientarsi

Per comprendere le dinamiche che ruotano intorno al tema della protezione della proprietà intellettuale, è opportuno chiarire alcuni strumenti di tutela.

Il ‘brevetto’ è un documento, rilasciato a fronte di una domanda circostanziata, che riconosce al beneficiario il diritto esclusivo – limitato nel tempo – di poter disporre e trarre vantaggi economici da una propria idea originale. Il brevetto è applicabile a diversi campi dell’attività accademica e industriale e risponde a specifici requisiti che ne garantiscono la validità: novità, originalità (risultato di un’attività inventiva) e industrialità.

  • Novità: un’invenzione è considerata nuova se non è già compresa nello stato dell’arte della tecnica, cioè in tutto ciò che è pubblico e accessibile (in Italia o in altri Paesi) prima della data di deposito della domanda di brevetto. La diffusione può realizzarsi ad esempio mediante divulgazione scritta o orale, una utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo (es.: la pubblicazione dei concetti sull’invenzione in un giornale scientifico, la presentazione in una conferenza, l’utilizzo in ambito commerciale, l’esposizione in un catalogo).

  • Attività inventiva: il requisito è rispettato se, per una persona esperta del settore, la scoperta non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica. L’attributo della non ovvietà intende assicurare che i brevetti siano concessi solo a risultati che derivano da un processo inventivo o creativo.

  • Industrialità: l’idea oggetto di brevetto deve avere un’applicazione in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola. L’invenzione non può pertanto essere frutto di un semplice processo intellettuale, ma deve essere tecnicamente realizzabile e capace di condurre a un risultato immediato nell’ambito della tecnica industriale generando effetti pratici.

Ci sono poi alcuni prodotti dell’ingegno che non sono brevettabili, come:

  • le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici;

  • i metodi per il trattamento chirurgico, terapeutico o di diagnosi del corpo umano o animale;

  • i piani, i principi e i metodi per attività intellettuale, per gioco o per attività commerciali;

  • i programmi per elaboratori (software) in quanto tali, per i quali vale comunque il diritto d’autore;

  • le presentazioni di informazioni;

  • le razze animali e alcuni procedimenti biologici per l’ottenimento delle stesse;

  • le varietà vegetali.

Il brevetto è applicabile, nei limiti dei requisiti sopra elencati, a qualsiasi invenzione industriale, ma anche ai cosiddetti “modelli di utilità”, cioè a modifiche di oggetti noti come, per esempio, macchinari o parti di essi, strumenti, utensili, ecc., che conferiscono loro una particolare efficacia o una maggiore utilità o un’aumentata comodità d'uso.

Il marchio è un segno che consente a un’azienda di essere identificata o distinguere i propri prodotti o servizi da quelli delle aziende concorrenti. Un marchio può contenere, ad esempio, disegni, immagini, parole o lettere e avere diverse combinazioni di colore. Possono essere compresi in un marchio anche suoni e forme di prodotti o packaging, tonalità cromatiche o loro combinazioni.

Affinché un marchio sia registrabile deve rispondere ai seguenti requisiti:

  • novità: il marchio deve essere nuovo, ossia non avere caratteri di identità o similitudine con marchi già depositati, con segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi del commercio, come, a titolo esemplificativo: ditta, denominazione, ragione sociale, insegna o nome a dominio aziendali;

  • capacità distintiva: il marchio non deve identificarsi con la denominazione generica del prodotto o del servizio che contraddistingue o con altri segni distintivi già utilizzati da altri;

  • liceità: il marchio depositato non deve essere contrario all'ordine pubblico e al buon costume; non deve ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o dei servizi; non deve costituire violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.

 Brevettare e registrare sì, ma cum grano salis

Il deposito di una domanda di brevetto o la registrazione di un marchio protegge il detentore dall’utilizzo dell’idea e del logo da parte di altri, ma prima di avventurarsi nel deposito di una domanda di brevetto o nella richiesta di registrazione di un marchio è opportuno tenere presenti alcune considerazioni.

Innanzitutto, il brevetto non ha una durata infinita. L’esclusiva per lo sfruttamento economico dell’idea è concessa al titolare del brevetto per 20 anni non rinnovabili, dopo di che qualsiasi soggetto ha il diritto di utilizzare il brevetto senza essere esposto al rischio di controversie legali. Per questo, se lo sfruttamento dell’invenzione ha un orizzonte temporale più lungo, meglio optare per la strategia del “segreto industriale”.

Couleur - Pixabay

Emblematica è al riguardo la formula della Coca Cola, mai brevettata ma custodita gelosamente dall’azienda che provvede direttamente presso la sede di Atlanta alla preparazione dell’ingrediente base e al suo invio agli stabilimenti di imbottigliamento sparsi nel mondo, dove avviene la diluizione e l’aggiunta di gas.

Altro aspetto, spesso sottovalutato, è che il brevetto non fornisce una protezione automatica. In caso di sospetta violazione è responsabilità dell’azienda che si sente danneggiata intentare una causa legale verso il presunto “contraffattore”, come dimostra il caso Piaggio-Peugeot.

Infine, la validità di un brevetto è legata all’area geografica per cui si richiede la registrazione dell’idea. Esistono brevetti italiani, europei, mondiali o limitati a determinati Paesi.

Poiché i tempi e soprattutto i costi di deposito del brevetto dipendono dai Paesi per i quali si chiede la protezione dell’idea, è opportuno aver chiaramente definito una strategia commerciale e di orientamento al mercato, prima di presentare la domanda, ricordando comunque che l’area geografica di validità di un brevetto può essere estesa entro precisi termini temporali dalla presentazione della prima domanda (in altre parole, un brevetto valido in Italia può essere successivamente esteso ai paesi dell’UE).

Da non dimenticare infine che il mantenimento di un brevetto nei 20 anni di validità è subordinato al pagamento di tasse annuali.

Jürgen Polle - Pixabay

Riguardo ai marchi valgono più o meno le medesime considerazioni fatte per i brevetti. Una differenza importante è che la protezione e l’esclusivo utilizzo fornito dalla registrazione di un marchio possono essere rinnovati periodicamente senza limiti di tempo. Come accaduto a Mc Donald’s, però, il marchio deve essere utilizzato. Il non utilizzo per un periodo di cinque anni, come già detto, comporta la decadenza dei diritti di registrazione e di uso esclusivo.

In fase di valutazione della domanda di registrazione di un marchio, le aziende che ritengono di essere vittima di abuso possono presentare istanza di opposizione alla registrazione.



È quanto accaduto alla Cantina Muggittu, azienda vinicola sarda, che ha vinto una battaglia legale contro la multinazionale austriaca titolare del marchio Red Bull, che l’accusava di "violazione del marchio e di concorrenza sleale" per aver copiato il proprio marchio.

La contestazione del colosso dell'energy drink, in opposizione alla richiesta di registrazione del marchio da parte del produttore di vino, è stata respinta dalla Direzione Generale per la tutela della proprietà industriale del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, così il logo potrà continuare a essere usato per i vini Muggittu Boeli.

 Brevetti e marchi: testimonial della capacità di innovazione e della forza di un’azienda

La capacità di innovazione è da sempre segno della vitalità di un’azienda, come di un “sistema Paese”. È nei centri di ricerca e sviluppo che si crea la capacità competitiva e si pongono le premesse per la creazione di prodotti di successo in grado di soddisfare le esigenze dei diversi mercati e di garantire i volumi produttivi in grado di far prosperare le fabbriche.

Allo stesso modo, il segno distintivo con cui un prodotto è presente nel mercato (il marchio o logo, per intenderci) è uno strumento in grado di attrarre e fidelizzare il cliente creando a volte uno status; per dare un’idea, pensiamo al noto logo della mela.

Fondamentale diventa quindi per le aziende individuare i settori in cui concentrare la ricerca e programmare adeguati investimenti per sostenere le attività e le figure a essa collegate.

La spinta all’innovazione è il carburante che fornisce la giusta propulsione al business aziendale e gli permette di consolidarsi nelle aree di forza e di svilupparsi verso nuovi orizzonti.

Non investire in ricerca e innovazione equivale a condannarsi a una posizione di marginalità nel mercato e, prima o poi, a scomparire.

Foto di copertina: Pete Linforth - Pixabay

Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Il coaching e il pensiero di Marco Aurelio

È possibile un parallelo stoico?


Abbiamo provato a cogliere, e quindi a proporla nel testo che segue, una simmetria tra il pensiero filosofico di Marco Aurelio, appartenente a secoli e secoli fa, e il coaching.

Partendo da un’idea di Mattia Zini, studente del corso ‘Gestione digitale d’impresa’ presso l’ITS Maker e tirocinante in BluPeak, è arricchente e stimolante vedere le conclusioni a cui giungono lui e un’addetta ai lavori, ovvero Enrica Nardi, Business Coach del Team BluPeak.

Marco Aurelio e lo stoicismo: dal libro “Marco Aurelio (pensieri)”

Foto free Pixabay

Grazie a un breve inquadramento storico che ci suggerisce Mattia, sappiamo che «Marco Aurelio, adottato dall’imperatore Antonino Pio e succedutogli sul trono imperiale nel 161 d.C., è passato alla storia come sovrano illuminato. Fu un valente filosofo, ultimo dei grandi esponenti dello stoicismo, e la sua opera "Marco Aurelio (pensieri)" è una raccolta di note e riflessioni personali, praticamente il suo diario personale.

Il documento consiste principalmente nei pensieri introspettivi di Marco Aurelio mirati al miglioramento personale e alla gestione delle sfide della vita, in cui enfatizza l'autosufficienza, la ragione e l'accettazione del destino.

Sebbene "Marco Aurelio (pensieri)" non definisca esplicitamente i principi stoici, li mostra in azione. L’autore ripete spesso l’importanza di controllare i propri pensieri e le reazioni, di concentrarsi su ciò che è sotto il proprio controllo, accettando ciò che invece non lo è.

Il testo mette in rilievo la virtù come elemento centrale dello stoicismo. Marco Aurelio evidenzia il valore della giustizia, dell'autocontrollo, del coraggio e della saggezza per condurre una vita appagante. Le sue riflessioni suggeriscono che allinearsi con la natura e la ragione è fondamentale per raggiungere la pace interiore e la felicità.»

Ma cos’è il coaching?

Mattia ci ripropone la definizione che ne dà l’ICF – International Coach Federation: “Il coaching è una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale”.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

«Il coaching, quindi, è lo strumento per chi vuole capire il nuovo ruolo che si va definendo, trovare le motivazioni e le attitudini necessarie, accedere a nuove risorse interiori e sviluppare ulteriori competenze.

Il coaching, in definitiva, è “cambiamento generativo” e “sviluppo personale”. L’attività di coaching è focalizzata su come “pensare meglio” e “reagire meglio emotivamente” all’ambiente circostante, con lo scopo finale di potenziare le aree di interesse personale e/o aziendale.

Alcune aree migliorabili con il coaching sono l’abilità, la capacità e la motivazione nell’apprendere nuove skill; la capacità di definire e ridefinire il proprio ruolo in azienda e nel contesto di lavoro; la capacità di focalizzazione costante su ambiti di competenze vecchie e nuove; la flessibilità nell’incorporare un nuovo sistema di princìpi e valori aziendali; aumentare la propria efficacia.

In quest’ottica, il coach diventa la persona che aiuta e facilita, durante la difficile fase di transizione dal vecchio al nuovo, il processo di rinascita della persona all’interno del mutato contesto aziendale.»

A tal proposito è utile l’annotazione di Enrica: «Il termine coach risale al XV secolo: Kocs era un villaggio ungherese a nord di Budapest, rinomato per la produzione di un nuovo tipo di carrozza. In seguito la parola coche (dal francese antico) indicava un mezzo di trasporto, rapido ed efficiente, trainato dai cavalli, che si diffuse nel resto d'Europa.

La carrozza è quindi un’utile metafora per comprendere il percorso affrontato da un cliente e può essere visto come un viaggio di apprendimento e consapevolezza, da un punto di partenza, definito situazione attuale, a uno di arrivo, detto situazione ideale.»

 Il parallelo

Ispirato dalle sue letture, dunque, Mattia ipotizza una comparazione tra il coaching e alcuni princìpi espressi in “Marco Aurelio (pensieri)”.

«Se da una parte il coaching valorizza la partnership con il cliente e il suo ruolo attivo nel processo di miglioramento, similmente Marco Aurelio sottolinea ripetutamente l’importanza del controllo individuale sui propri pensieri e sulle azioni: Il principio sovrano dentro di noi, quando si trovi conforme a natura, ha verso gli eventi una disposizione tale che può sempre facilmente mutarla in relazione a ciò che è possibile e concesso (Libro IV, 1).

E come il coaching aiuta a “pensare meglio” e “reagire meglio emotivamente” al presente, altrettanto Marco Aurelio incoraggia a concentrarsi sul presente: Questo tempo presente concedilo a te stesso (Libro VIII, 44).

Ancora, come il coaching si focalizza sul raggiungimento di obiettivi specifici e sul miglioramento progressivo, così pure Marco Aurelio, in linea con la filosofia stoica, promuove l’accettazione di ciò che non è controllabile e la pratica costante della virtù: Sia sempre ben chiaro che laggiù, in campagna, è all'incirca come qui, e come tutto, qui, sia lo stesso che in cima a un monte o in riva al mare o dove credi (Libro VIII, 23).

E infine il coaching non tratta patologie psicologiche, ma aiuta chi sta bene a stare meglio. Marco Aurelio, similmente, pone l’accento sul peso della ragione nel guidare le azioni: Punto per punto, a ogni singola cosa che fai, soffermati a riflettere e domandati se la morte sia temibile perché ti priva di quella cosa (Libro VIII, 29).»

 Le conclusioni

Per Mattia dunque, «pur non essendoci una trattazione specifica del coaching in relazione a Marco Aurelio, è possibile notare delle similitudini tra alcuni princìpi del coaching e il pensiero stoico da lui espresso: entrambi, infatti, enfatizzano la responsabilità individuale, il controllo sui propri pensieri, la focalizzazione sul presente, l’accettazione e la pratica della virtù.»

A supporto di tutto quanto fin qui espresso, e calato nella realtà aziendale, leggiamo quanto ci propone Enrica, quasi a suggello delle considerazioni di Mattia:

«Marco Aurelio ha sicuramente fornito insegnamenti rilevanti nel contesto del coaching. La sua idea di concentrarsi sulle cose che possiamo controllare, come le nostre azioni e le nostre reazioni agli eventi, anziché perdere energia su ciò che è al di fuori del nostro potere, è fondamentale nel coaching. Ci insegna a riconoscere ciò che è in nostro potere e a lasciar andare ciò che non lo è; ci invita a vivere nel momento presente e a comprendere che la felicità risiede nel come utilizziamo la nostra mente e il nostro cuore, in connessione con la nostra Anima.

In BluPeak, quando iniziamo un percorso di business coaching con le aziende, incoraggiamo le persone a sviluppare un senso di respons-abilità personale e a focalizzarsi su ciò che possono cambiare, adottando nuove prospettive per affrontare i problemi in modo più efficace.

Marco Aurelio considerava gli ostacoli come parte naturale della vita e invitava ad affrontarli con determinazione e resilienza: anche questo concetto è prezioso nel coaching, dove le difficoltà sono occasioni per crescere, imparare e sviluppare nuove competenze.

Attraverso l’arte del coaching e la saggezza di Marco Aurelio, possiamo considerare le difficoltà come opportunità e trasformare la nostra visione del mondo attraverso l’osservazione e l’interpretazione del circostante.

Lo scopo è divenire sempre più coscienti che ognuno di noi guarda la realtà attraverso un punto di vista unico e irripetibile e che le nostre azioni e i nostri stati d’animo nascono da questo modo individuale di osservare.

Ed è proprio l’attaccamento e la difesa di una convinzione in merito alla realtà che genera la maggior parte di difficoltà e dei conflitti che incontriamo nella nostra vita.

Il coaching, ispirato anche dal pensiero filosofico di Marco Aurelio, diventa un viaggio trasformativo di profonda introspezione.

Negli ultimi decenni, all'interno di organizzazioni e aziende si sta affermando un nuovo modello di leadership, capace di inglobare le competenze relazionali proprie della metodologia del coaching, per gestire in maniera più efficace una discussione, un progetto, un team, l’azienda stessa.

Le opportunità che un manager ha per utilizzare l’approccio di coaching sono molteplici e riguardano la gestione del suo team, lo sviluppo dei suoi collaboratori, la condivisione di attività e responsabilità, la capacità di comunicazione, l’ascolto e il feedback e così via.

In quest’ottica, il “leader coach” può diventare un elemento catalizzatore di innovazione della cultura aziendale che ispira e motiva sé stesso, la sua squadra e la sua azienda verso risultati concreti di miglioramento.

Immagina di essere in una sessione di coaching dove la saggezza millenaria di Marco Aurelio risuona attraverso le parole del tuo coach, e dove, come gli antichi stoici, impari a mantenere la calma in mezzo al caos e a trovare la forza interiore per affrontare le sfide della tua vita…»

 

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I COSTI NASCOSTI

Scoprire e gestire i costi nascosti, liberare risorse finanziarie per potenziare il business


Primavera, stagione di rinascita, di allergie ma anche di scadenze fiscali. Cogliamo quindi l’occasione per una riflessione sui costi aziendali e sulla loro ottimizzazione, che consente di liberare risorse per potenziare le attività e guidare l’impresa verso un futuro di successo.

Ma quanto costa un’azienda?

Per ogni imprenditore, avere costantemente presente l’entità dei costi aziendali, saper valutare, gestire e migliorare le diverse attività che assorbono le risorse finanziarie dell’azienda è un compito fondamentale per garantire la sostenibilità economica dell’impresa e assicurarne la continuità e la crescita futura.

Quando si parla di costi aziendali, si è subito portati a pensare alle classiche categorie che vengono normalmente riportate nei testi di management aziendale: costi fissi, costi variabili, costi diretti e indiretti. Vi è però anche un’altra tipologia di costi, particolarmente insidiosa, che spesso viene a torto trascurata perché più difficile da contestualizzare, quella dei cosiddetti costi nascosti.

Si tratta di spese non evidenti, né facilmente individuabili nella gestione dell’organizzazione aziendale e che, accumulandosi nel tempo, appesantiscono il bilancio e minano la competitività dell’azienda senza che il management ne sia consapevole.

Taiichi Ōhno: chi era costui?

Ohno-Taiichi - Fonte: Wikipedia

Probabilmente questo nome non vi dirà nulla. Appartiene a un distinto signore nato in Cina nel 1912 e vissuto in Giappone, che è stato ingegnere di produzione alla Toyota e che è considerato tra i principali teorici della Lean Production.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, due aspetti preoccupavano gli industriali giapponesi, impegnati anche loro nella ricostruzione post bellica: la mancanza di materie prime e la mancanza di spazio.

Si andarono perciò consolidando princìpi, metodi e tecniche per la gestione dei processi operativi basati sulla sistematica riduzione degli sprechi e sull’utilizzo ottimale delle risorse a disposizione.

L’obiettivo da raggiungere era fare sempre di più con sempre di meno:

  • meno tempo;

  • meno spazio;

  • meno sforzo;

  • meno macchine;

  • meno materiali.

Ciò non voleva dire tagliare indiscriminatamente i costi (come purtroppo avviene oggi in alcune realtà), ma andare a cercare le cause di spreco e ridurle al minimo o eliminarle.

A riguardo, Taiichi Ōhno, attraverso meticolose indagini basate sull’attenta osservazione dei processi e della loro organizzazione (“Vai in officina e osserva” era il suo motto), ha contribuito alla declinazione e all’applicazione dei principi di base della filosofia Lean:

  • Valore: il punto di partenza è sempre la definizione del valore secondo la prospettiva del cliente. Valore è solo ciò che il cliente è disposto a pagare, tutto il resto è spreco e va eliminato.

  • Mappatura: per eliminare gli sprechi occorre saperli misurare, mappare il flusso del valore, ovvero delineare tutte le attività in cui si articola il processo operativo, distinguendo tra quelle a valore aggiunto e quelle non a valore aggiunto, che possono rivelarsi dannose per l’organizzazione.

  • Flusso: è il processo di creazione del valore che è visto come un flusso, che deve scorrere in modo continuo, riducendo al minimo i tempi di attesa e di attraversamento (lead time) del materiale.

  • Produzione ‘tirata’: soddisfare il cliente significa produrre solo quello che vuole, solo quando lo vuole e solo quanto ne vuole La produzione è così ‘tirata’ dal cliente, anziché ‘spinta’ da chi produce.

  • Perfezione: è il punto di riferimento a cui si deve tendere attraverso il miglioramento continuo e progressivo dei processi (Kaizen) e la completa eliminazione degli sprechi.

Grazie a queste teorie e alle metodologie per applicarle, è possibile soddisfare clienti esigenti, gestire tecnologie complesse e garantire elevata flessibilità in tempi ridotti.

I sette Muda: mantra del buon imprenditore

Poster originale del film - Fonte: Wikipedia

Nel 1954 Akira Kurosawa realizzava la pellicola “I sette samurai”, ambientata nel Giappone del XVI secolo, che narra la storia di un gruppo di contadini che si affidano a sette Rōnin (Samurai) per difendersi dai soprusi e dai saccheggi di una banda di briganti.

Più o meno nello stesso periodo Taiichi Ōhno diffondeva la teoria dei sette sprechi (Muda in giapponese), anche questi dei “briganti” che saccheggiano le risorse dell’azienda.

Muda può essere considerato qualsiasi utilizzo di risorse che non aggiunge valore alle aspettative del cliente.

 

 



In particolare, secondo Ōhno, sette sono le tipologie di sprechi da individuare e combattere:

  • Sovrapproduzione: produrre più del necessario a coprire gli ordini pervenuti dai clienti;

  • Attese: perdere tempo nell’aspettare materiali o informazioni per realizzare la produzione;

  • Trasporto: trasferire materiali o semilavorati da un luogo a un altro, spesso lontani, per poter completare la realizzazione dei prodotti (in pratica avere una supply chain e un flusso logistico non ottimizzati);

  • Perdite di processo: inefficienze e sprechi di risorse dovuti alla gestione non ottimale di processi complessi;

  • Scorte: è una voce di costo, quella del magazzino, che può diventare critica sia per il cosiddetto eccesso di inventario (over stock), sia per l’impatto dell’obsolescenza dei prodotti o i danneggiamenti nella loro manipolazione;

  • Movimenti: avere postazioni di lavoro e layout non ottimizzati dal punto di vista dell’ergonomia e dei flussi può portare a maggiore tempo per fare le operazioni, rischio di errore, minore efficienza e ridotta qualità del lavoro;

  • Difetti: realizzare prodotti che non rispettano i requisiti di qualità e che hanno difetti che ne impediscono la vendita o, peggio, che costringono il cliente a dover restituire il prodotto acquistato per la sua riparazione o sostituzione.

È compito dell’imprenditore che gestisce l’azienda con lo spirito del “buon padre di famiglia” mettere in campo le energie necessarie per identificare queste falle nell’organizzazione e porvi rimedio.

Per la caccia ai Muda è importante il coinvolgimento dei vari livelli dell’organizzazione, fino agli operatori di linea, e l’ascolto dei loro suggerimenti, atteggiamento fondamentale anche per la motivazione delle risorse, altro aspetto positivo per il buon funzionamento dell’azienda.

Conclusioni: eliminiamo gli sprechi e trasformiamo positivamente il business aziendale

Eliminare gli sprechi, come detto, porta a migliorare le condizioni di lavoro, ma anche a liberare risorse finanziarie che possono essere reinvestite in azienda. Questo investimento diventa valore aggiunto se quanto economizzato viene utilizzato, ad esempio, per la modernizzazione di macchinari o il miglioramento delle postazioni di lavoro, ma anche per programmi di formazione e miglioramento delle competenze, al fine di valorizzare il capitale umano.




Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay




Andrea Calisti

Business Transformation Expert

 

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

DUE STAGISTI IN BLUPEAK

Dal 19 marzo fino a metà giugno 2024, per un monte complessivo di 400 ore, Federico Corsini e Mattia Zini sono ‘ospiti’ di BluPeak per un tirocinio

Si tratta di due giovani del corso ‘Gestione digitale d’impresa’ dell’ITS Maker - Istituto Superiore di Meccanica, Meccatronica, Motoristica e Packaging dell’Emilia Romagna, durante il quale hanno affrontato con i docenti di BluPeak i moduli di Problem Solving, di tecniche di Project Management e gestione della commessa, e di Metodologia FMEA.

Sono entrambi estremamente vivaci e capaci, ciascuno con le proprie peculiarità: Mattia si definisce «una persona intellettualmente curiosa», con una grande passione per teatro e letteratura, cosa che gli ha permesso di sviluppare doti di empatia, nonché una notevole immaginazione; Federico, coinvolto in svariate attività di volontariato, ama il cinema, l’escursionismo e lo sci alpino.

Abbiamo stimolato in loro una serie di considerazioni per capire l’approccio di menti giovani all’universo del Project Management e del Problem Solving.

Naturalmente partiamo proprio dall’idea che Federico e Mattia avevano del ‘progetto’ prima di iniziare a esplorare il mondo del Project Management.

Mattia Zini

«Prima di approcciare al Project Management pensavo al progetto come una ‘nuova idea’», dice Mattia, «sviluppata da una o più persone nel processo di creazione di un prodotto o di un servizio nuovo, o anche nell’aggiornamento di uno esistente. Poi ho scoperto anche prospettive differenti: il progetto visto come un viaggio esplorativo ed educativo, e il suo significato etimologico, nonché l’uso di ogni singola parola impiegata all’interno di un progetto. Il termine stesso di progetto, nella sua accezione semantica, indica ‘gettare in avanti’; questo mi fa immaginare una startup di giovani, dove la nuova idea concepita viene metaforicamente lanciata sul mercato designato, insieme ai calcoli e agli eventuali prototipi, con lo scopo di soddisfare un bisogno del mercato, trasformando così la nuova ispirazione in qualcosa di concretamente vivo.»

Federico Corsini

Per Federico, invece, l’idea di progetto che aveva inizialmente era forse più intuitiva, «legata all’utilizzo comune del termine nei diversi contesti ordinari, come per esempio: ‘Quali sono i tuoi progetti per il futuro?’ o ‘Quali sono i progetti per l’estate?’. In entrambe le circostanze, si tratta principalmente di un’idea o di un proposito più o meno definito per raggiungere uno scopo prefissato. Questa concezione è legata al significato di “progetto” che ho appreso dopo l’esplorazione dei metodi di Project Management, anche se con qualche differenza: in un progetto ben strutturato, infatti, nulla dev’essere lasciato al caso. Per garantirne il successo, oltre a un’attenta pianificazione, è necessario definire il budget, il team, lo scopo da raggiungere e i limiti temporali.

L’etimologia del termine progetto, dal latino: [pro] avanti e [jacere] gettare, ci rimanda al significato di qualcosa che viene gettato davanti. A mio parere sottolinea l’importanza di una visione a lungo termine proiettata verso il futuro, che sprona a guardare avanti. I progetti, difatti, richiedono una precisa pianificazione e un attento studio delle implicazioni sia presenti che future.»

Ma come immaginano, ciascuno dei due, la fase iniziale della carriera di un giovane Project Manager?

Federico parla subito di «una sfida affascinante, ma al contempo impegnativa e complessa, ostacolata, ai primi passi, dalla gestione dell’ambiguità e dell’incertezza, soprattutto in contesti dove i progetti sono influenzati da molteplici variabili e cambiamenti improvvisi.» Ben ricordando quanto appreso, cita l’acronimo VUCA, che definisce il mondo d’oggi: Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity. Per stressare la mutabilità e l’incertezza, «un approccio più aggiornato del VUCA è stato presentato da Jamais Cascio: l'orizzonte BANI (Ndr: altro acronimo che sta per Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible). Questo richiede una capacità di adattamento rapido e una notevole flessibilità mentale.

Un altro fattore importante è la necessità di possedere una vasta gamma di conoscenze e competenze. Secondo il Talent Triangle del PMI (Project Management Institute), un PM di successo deve essere esperto in tre dimensioni fondamentali: competenze tecniche di Project Management, leadership efficace e una visione strategica e di business. Integrare e bilanciare tali competenze può essere una sfida all’inizio della carriera, specialmente quando si affrontano situazioni complesse e diverse. Per concludere, queste competenze sono affinabili attraverso l’esperienza, quindi è importante per i giovani Project Manager impegnarsi nell’apprendimento continuo e nello sviluppo professionale. Be adaptive. Be agile in learning

Secondo il parere di Mattia, invece, le principali difficoltà che un giovane PM può incontrare all’inizio della carriera «includono innanzitutto la disciplina nell’uso delle parole: attribuire il significato, l’intenzione e il referente corretti. Ho idea che il pericolo maggiore per un giovane è quello di usare inconsciamente parole con il significato e l’intenzione giusti, ma sbagliando il referente, o viceversa. Di conseguenza, è importante anche saper formulare domande e fornire risposte corrette ed efficaci. Risulta fondamentale avere un proprio senso critico, ovvero saper riconoscere le differenze e ricavare informazioni utili, attribuendo il loro valore nell’ambito del progetto. Gli ambiti di business più favorevoli all’introduzione di questa disciplina, inoltre, sono a mio parere i settori tecnici e del software, dove si possono applicare metodi agili e interazioni rapide. Al contrario, gli ambiti in cui si riscontra maggiore difficoltà sono i settori della pubblicità e del marketing, che richiedono un alto grado di flessibilità e adattabilità.»

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

Il lavoro in team è condizione imprescindibile per i progetti; vediamo come Mattia e Federico sono stati colpiti dalle dinamiche alla base del funzionamento degli individui in una squadra che deve raggiungere un obiettivo comune.

A Mattia piace fare un paragone molto ad hoc: «Ciò che mi colpisce è che c’è una somiglianza con la base del gioco di squadra come nel rugby: il capitano della squadra svolge un ruolo simile a quello del Project Manager. Supervisiona l’azione sul campo, prende decisioni tattiche e motiva i giocatori durante il gioco. Assicura che la strategia di gioco sia seguita e adattata in base alle circostanze, garantendo che tutti i componenti siano coinvolti e che l’obiettivo di segnare punti sia sempre presente. In sostanza, il capitano del rugby è il leader sul campo di gioco, che guida il suo team verso la vittoria attraverso coordinazione, comunicazione e leadership, appunto.»

Federico dà valore alla «comunicazione efficace e alla collaborazione tra i membri del team. In un contesto di progetto, è essenziale che ogni membro comprenda chiaramente il proprio ruolo e le proprie responsabilità, ma allo stesso tempo che sia in grado di lavorare in armonia con gli altri per raggiungere gli obiettivi comuni. Ho notato, però, che anche la diversità all’interno del team può essere una notevole risorsa da sfruttare. Ogni componente porta con sé un insieme unico di competenze, esperienze e prospettive, che possono arricchire il processo decisionale e portare a soluzioni più innovative. Infine, mi ha colpito l’importanza di avere un leader efficace all’interno del team. Un leader in grado di ispirare fiducia, guidare il team attraverso le sfide e mantenere alta la motivazione, infatti, può fare la differenza tra il successo e il fallimento di un progetto. I leader più efficaci sono quelli che dimostrano empatia, comunicano chiaramente le aspettative e sono in grado di adattarsi alle mutevoli esigenze del team e del progetto.»

Sempre sul tema del Project Management, scopriamo quali pensano possano essere i fattori che in un’organizzazione ne rendono più difficile l’introduzione.

«Sono molteplici», afferma Federico, aggiungendo subito che «la resistenza al cambiamento rappresenta uno dei principali ostacoli: i membri del team o gli stakeholder possono esitare nel modificare i processi esistenti, considerandoli ancora validi; tale resistenza può derivare dalla mancanza di comprensione dei benefici della gestione dei progetti. Inoltre, la paura di adottare nuove metodologie e processi può ostacolare l’implementazione delle pratiche di Project Management. È quindi essenziale comunicare in modo chiaro i vantaggi delle pratiche di Project Management e fornire una formazione adeguata a superare queste sfide.»

E Mattia: «Ciò che rende più difficile l’introduzione di pratiche di Project Management in un’organizzazione è l’ignoranza o la paura nei confronti di metodi organizzativi e modi di lavorare innovativi. Ignoranza e paura che, di conseguenza, rendono le persone restie ad adottare un approccio proattivo.»

Foto di Pete Linforth - Pixabay

Spostandoci poi sul Problem Solving, e partendo sempre dall’analisi etimologica, grazie alla quale scopriamo una somiglianza tra le parole ‘problema’ e ‘progetto’, proviamo a stimolare in Federico e Mattia le loro considerazioni a riguardo.

Mattia, grazie alle informazioni trovate ed elaborate, ci dice che «l’etimologia delle parole “problema” e “progetto” ci offre un’interessante connessione. Entrambe derivano dal greco antico e la loro origine comune può aiutarci a comprendere meglio il concetto di Problem Solving e come esso sia collegato al processo di progettazione. La parola “problema”, dal greco “próblēma” che significa “qualcosa posto davanti” o “impedimento”, indica una situazione o una questione che richiede una soluzione o una risposta. Immaginiamo di dover attraversare un fiume, ma c’è un grande masso nel mezzo. Il masso è il nostro “problema” da risolvere: come superarlo? Come raggiungere l’altra sponda?

La parola “progetto” ha una radice simile. Deriva dal greco “pro-ienai”, che significa “andare avanti” o “avanzare”. Un progetto è un piano o un insieme di azioni organizzate per raggiungere un obiettivo specifico.

Tornando all’esempio del fiume, il “progetto” potrebbe essere la costruzione di un ponte per superare il masso, cosa che richiede pianificazione, risorse e azioni coordinate.

Il Problem Solving quindi è il processo di risoluzione di un problema. Coinvolge l’analisi, la pianificazione e l’attuazione di soluzioni, ovvero una pro-azione. Quando affrontiamo un problema, dobbiamo progettare una strategia per superarlo. Questo è il collegamento tra le due parole: il Problem Solving rappresenta la costruzione del ponte tra il problema e la soluzione, utilizzando il processo di progettazione per guidarci.»

«I due termini, progetto e problema», per Federico, «riportano al concetto di cambiamento e opportunità in una prospettiva volta verso il futuro. Questo collegamento viene anche evidenziato da Juran nella definizione della parola ‘progetto’, descrivendola come un problema destinato a essere risolto (A project is a problem scheduled for solution). Tale concezione sottolinea una correlazione molto stretta, quasi intrinseca, tra le due parole: risolvere un problema, infatti, è spesso il punto di partenza da cui avviare un progetto, cioè trasformare una situazione di insoddisfazione in un miglioramento. La trasformazione da problema a progetto è quindi il mezzo che ci permette di raggiungere nuove opportunità ed evoluzioni.

Le due parole sono anche accomunate dall’iter necessario per risolvere un problema e realizzare un progetto, che è molto simile. Infatti, in entrambi i casi, sono richieste abilità di problem solving, pianificazione e adattabilità per procedere al meglio e trovare le soluzioni più adeguate al contesto in cui ci troviamo.»

Poiché l’iter di soluzione di un problema deve sempre partire dall’ammissione di avere un problema, e dalla sua descrizione condivisa, proviamo a capire insieme ai ragazzi quali sono per loro le fasi più importanti dell’impostazione iniziale della soluzione di un problema, da cui dipende il successo di ciascuno dei passi successivi, e che ruolo possono avere le parole e il linguaggio.

«I passaggi fondamentali per impostare la risoluzione di un problema», afferma Federico, «partono dal quantificare l’impatto del problema nella circostanza in cui ci troviamo (il costo finanziario, l’effetto sulla produttività, l’effetto sulla soddisfazione del cliente, ecc.). Successivamente, è fondamentale fornire una descrizione chiara e precisa del problema, includendo dove e quando si verifica, chi o cosa ne è influenzato, e qualsiasi altro dettaglio rilevante. Dopo aver definito il problema, il passo ulteriore è identificare la causa alla radice, che può richiedere un’analisi approfondita e l’uso di strumenti come il diagramma di Ishikawa o l’analisi delle 5 W (Who, What, When, Where, Why) per comprendere il motivo per cui il problema si è manifestato. In tutte le fasi di risoluzione di un problema, le parole e il linguaggio giocano un ruolo cruciale: un linguaggio chiaro e preciso può aiutare a definire il problema in modo efficace, comunicare le proprie idee agli altri, formulare ipotesi e presentare soluzioni. Infine, un buon uso del linguaggio può facilitare la collaborazione e la condivisione di idee, che sono la chiave per la risoluzione dei problemi.»

Per Mattia, in base a quanto recepito dai suoi studi, «le fasi chiave per impostare con successo la soluzione di un problema sono l’identificazione del problema, l’analisi approfondita e la definizione degli obiettivi. Il primo step è come fare una mappa del tesoro: devi sapere esattamente qual è il problema, lo metti a fuoco e, se necessario, condividi con le persone con cui lavori. Nella fase successiva si scava più a fondo per capire la causa del problema, e in tal caso il sistema delle 5 W è molto usato e utile. La definizione degli obiettivi è come tracciare la rotta su una mappa. Dove vuoi arrivare? Che cosa vuoi ottenere risolvendo questo problema? Impostare obiettivi chiari aiuta a mantenere la direzione. Di conseguenza credo che il linguaggio e le parole sono come il filo conduttore che tiene insieme tutte queste fasi. Usare un linguaggio chiaro e condiviso aiuta a comunicare il problema in modo comprensibile a tutti i membri del team. Le parole possono anche essere strumenti potenti per ispirare e motivare le persone durante il processo di risoluzione del problema, aiutandole a restare focalizzate e impegnate nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. Inoltre, un buon uso del linguaggio può facilitare la collaborazione e lo scambio di idee tra i membri del team, portando a soluzioni più innovative e efficaci.»

Foto di tookapic - Pixabay

E nell’iter di soluzione di un problema, che peso ha il team? Se la letteratura ci ha regalato geni investigativi come Poirot, Maigret, la Signora in giallo, Sherlock Holmes, tutti ‘solitari’ o che al massimo si avvalgono con distacco e superiorità di qualche gregario, con un ruolo sussidiario e spesso finalizzato a far brillare ancor più la loro intelligenza superiore, non deducete che sarebbe meglio lavorare da soli, allora?

La risposta di Federico è che «lavorare in team offre diversi vantaggi nell’affrontare problemi complessi. Innanzitutto la presenza di molteplici prospettive permette di individuare il problema e trovare soluzioni più adatte al caso. Inoltre, un team consente di valutare i rischi e le opportunità in modo più completo, fornendo un quadro generale maggiormente dettagliato. Rispetto ai grandi detective solitari della letteratura, anche se dotati di talento e intuito straordinari, un team offre una gamma più ampia di risorse e competenze, agevolando l’identificazione, l’analisi e la risoluzione dei problemi in modo più efficiente.»

L’opinione di Mattia è che «lavorare in team è importante perché ogni membro può portare le proprie esperienze e conoscenze utili a trovare una soluzione al problema. Anche i grandi investigatori non riuscirebbero a trovare la soluzione da soli, ma hanno necessariamente bisogno della collaborazione di altre persone per raccogliere informazioni utili per ‘risolvere il caso’.»

Fra le più importanti metodologie del Problem Solving – almeno tra quelle che si muovono in modo convergente verso la soluzione – c’è la metodologia 8D, così chiamata perché assorbe 8 discipline, appunto. Come nei progetti, solo uno sguardo ampio e multidisciplinare può essere davvero efficace per ottenere la soluzione efficace. Verifichiamo quali ambiti del sapere umano e organizzativo sono, per Mattia e per Federico, coinvolti nella soluzione del problema, dove metodi tecnici e di misura sono combinati con i fattori emotivi e psicologici.

Senza dubbio, per Mattia «la gestione del team, quindi includere persone con competenze differenti e un leader che possa guidare il processo, è il primo ambito del sapere umano e organizzativo coinvolto nella soluzione di un problema con la metodologia 8D. Poi c’è l’analisi dei dati tecnici e di misura per identificare e analizzare il problema; i processi organizzativi dove si cerca di ottimizzare dei processi aziendali per prevenire eventuali problemi; infine, eseguire standard di qualità e saper attuare audit interni sono fondamentali per il controllo e il miglioramento continuo.»

Affinché si arrivi alla soluzione di un problema, Federico ritiene che serva la combinazione di diversi ambiti del sapere umano e organizzativo. «Questi includono l’ingegno e la creatività per generare nuove idee, le competenze tecniche e professionali per analizzare e vagliare le possibili soluzioni, e il talento nel coordinare e gestire le risorse disponibili. Inoltre, si adottano metodi e modelli che guidano il processo decisionale e consentono una valutazione razionale delle opzioni disponibili. Tale approccio, definito multidisciplinare, include anche fattori emotivi e psicologici, in quanto la comprensione delle motivazioni, delle preferenze e delle dinamiche interpersonali influisce notevolmente sull’efficacia delle soluzioni proposte e sulla loro accettazione da parte dei soggetti interessati. L’obiettivo finale è quindi sviluppare una strategia completa che bilanci le esigenze pratiche con le valutazioni umane e organizzative, per affrontare il problema in modo completo e soddisfacente.»

 

Complimenti, ragazzi, e in bocca al lupo!





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DA GUGLIELMO MARCONI A OGGI

Guglielmo Marconi, trasmissioni wireless e Intelligenza Artificiale: quando i cambiamenti sono disruptive


Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di Guglielmo Marconi e, vista la portata dei cambiamenti che con le sue ricerche e sperimentazioni ha introdotto nel settore e nell’industria delle telecomunicazioni, è doveroso rendergli omaggio e chiedersi quale possa essere oggi un cambiamento simile a quello provocato dalle sue scoperte.

Il genio autodidatta che ha rivoluzionato le comunicazioni 

Il 25 aprile di 150 anni fa (era il 1874) nasce a Bologna Guglielmo Marconi. Di padre italiano e madre irlandese, il ragazzo decide presto di interrompere gli studi e, trasferitosi a Pontecchio, nell’Appennino bolognese, presso la paterna Villa Griffone, nell’inverno 1894-1895 compie numerosi esperimenti sulle onde elettromagnetiche, perseguendo l’idea di utilizzarle come veicolo per realizzare comunicazioni a distanza senza l’uso di fili.

Villa Griffone - Foto di A. Calisti

Nella primavera del 1895 Marconi riesce a emettere un segnale che, partendo dalla villa, percorre due chilometri, supera la collina detta ‘dei Celestini’, e raggiunge un ricevitore in mezzo alla campagna.

Nasce così l’era delle comunicazioni wireless e, improvvisamente, non solo il telegrafo di Morse (brevettato cinquant’anni prima) ma anche il telefono (inventato da meno di 25 anni, nel 1871) sembrano diventare obsoleti. Quest’ultimo sopravviverà fino ad oggi, integrando però le tecnologie marconiane nella telefonia cellulare.

Il resto è storia piuttosto nota. Purtroppo, la giovane Italia dell’epoca non arrivò a percepire la portata della scoperta di Marconi, che sarà brevettata in Inghilterra, paese che rimarrà per diverso tempo il centro delle attività dello studioso e dove nel 1898 nascerà la Marconi’s wireless telegraph and signal Company, azienda che sarà per lo scienziato il principale mezzo di sviluppo della sua invenzione.

Tavolo di lavoro di Marconi - Villa Griffone

Foto di A. Calisti

Nel giro di pochi anni i segnali di Marconi superano l’Oceano Atlantico, collegando le coste dell’Inghilterra con quelle del Canada e accendono le luci del municipio di Sidney attraverso un comando che lo stesso Marconi aziona dal porto di Genova (era il 26 marzo 1930). Questi segnali, emessi dalle navi lungo le loro rotte, salveranno molte vite in mare (emblematico è il caso del Titanic, ma anche, in tempi più recenti, del transatlantico italiano Andrea Doria). Sulle onde di Marconi viaggeranno intorno al mondo voci, musica e messaggi (purtroppo non sempre lieti) attraverso la radiofonia e la televisione. Saranno possibili i collegamenti nei viaggi spaziali e nell’esplorazione del cosmo e, grazie alla radioastronomia, saranno studiate stelle lontane e l’universo remoto.


Villa Griffone e tomba di Marconi - Foto di A. Calisti

Marconi muore improvvisamente per una crisi cardiaca il 20 luglio del 1937. A 63 anni lascia un’eredità di conoscenza di inestimabile valore, sulla quale nei decenni futuri si formeranno e lavoreranno generazioni di tecnici e ricercatori e che rappresenta il fondamento delle telecomunicazioni moderne e del “villaggio globale” che oggi abitiamo.

Veramente le scoperte di Marconi sono state disruptive nelle relazioni umane e nella riduzione della distanza tra paesi e continenti, veramente era, come lo hanno soprannominato gli americani, il wireless wizard, il mago delle comunicazioni senza fili.

L’Intelligenza Artificiale: la rivoluzione di questo secolo

Guardando alle scoperte di Marconi, viene spontaneo chiedersi quale strumento innovativo, oggi, possa essere accostato alle tecnologie sviluppate dal genio bolognese.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

La risposta, a nostro avviso, è da ricercare nel mondo dell’informatica che, ad esempio, attraverso la meccatronica, ha dato origine a soluzioni innovative nel settore dei processi di manufacturing. Ma un altro settore merita di essere paragonato a quello di cui Marconi è stato pioniere e iniziatore: l’Intelligenza Artificiale.

L’intelligenza artificiale generativa (ad esempio ChatGpt sviluppata dalla società OpenAI) è capace di svolgere molti compiti ritenuti finora umani e di generare contenuti multimediali (testo, immagini, video, musica, ecc.) in risposta a specifiche richieste. Si tratta di uno strumento che può essere utilizzato in diversi settori (dalla analisi di documenti alla produzione di contenuti a scopo di comunicazione).

L’impiego dell’I.A. è oggi, e sarà sempre di più nei prossimi anni, fonte di trasformazioni nell’organizzazione e nella gestione di risorse e di processi aziendali, consentendo, se impiegata nel modo giusto, di liberare ore e risorse umane da dedicare ad attività maggiormente strategiche e a valore aggiunto. Vedere nell’I.A. solamente uno strumento per “tagliare teste” è un modo riduttivo e ottuso di concepire l’impiego di tale strumento dal potenziale decisamente elevato, per il miglioramento di processi quali la Ricerca & Sviluppo, la Progettazione, la Produzione e la Supply Chain, assicurando un migliore coordinamento delle risorse, una automatizzazione e velocizzazione delle attività di routine.

Già oggi il 70% delle aziende che hanno utilizzato l’I.A. dichiara di aver migliorato la produttività; inoltre, secondo uno studio realizzato da The European House Ambrosetti e Microsoft, l’I.A. può generare un impatto positivo sul PIL attraverso il risparmio di ore lavorative e l’efficientamento dei processi.

Certamente, come evidenziato da molteplici organizzazioni di categoria, il mercato del lavoro dovrà misurarsi con l’impatto dell’I.A. Le nuove frontiere della digitalizzazione incideranno sulle aziende e sui lavoratori portando una trasformazione dei posti di lavoro, la scomparsa di alcune professioni e la nascita di altre. Per affrontare e governare tale cambiamento, decisamente disruptive, sarà importante essere preparati a sfruttare il potenziale offerto dalle nuove tecnologie in chiave di miglioramento della produttività, ma anche della qualità del lavoro.

Infine, è bene sottolinearlo, l’uomo dovrà comunque essere sempre al centro della macchina organizzativa. A lui dovrà spettare il compito di esaminare e valutare il prodotto dell’I.A. e di deciderne l’impiego. In questo modo si potranno evitare i rischi profetizzati da Stanley Kubrick in “2001 Odissea nello spazio”, quando il disfunzionamento del supercomputer Hal 9000 determina il fallimento della missione spaziale, o raccontati da Ridley Scott in “Alien”, dove le decisioni dell’I.A. che governa la rotta della nave spaziale portano l’equipaggio al fatale incontro con l’alieno.

Di queste problematiche appare ben consapevole l’Unione Europea che, con il Regolamento sull’utilizzo dell’I.A., approvato lo scorso marzo, ha definito con un atto legislativo tra i primi al mondo, ambiti e requisiti per un corretto utilizzo dei sistemi di I.A. con le relative sanzioni per i trasgressori.

Foto di copertina (di A. Calisti): Radioricevitore Marconi 


Andrea Calisti

Business Transformation Expert

 

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