Dal 19 marzo fino a metà giugno 2024, per un monte complessivo di 400 ore, Federico Corsini e Mattia Zini sono ‘ospiti’ di BluPeak per un tirocinio.
Si tratta di due giovani del corso ‘Gestione digitale d’impresa’ dell’ITS Maker - Istituto Superiore di Meccanica, Meccatronica, Motoristica e Packaging dell’Emilia Romagna, durante il quale hanno affrontato con i docenti di BluPeak i moduli di Problem Solving, di tecniche di Project Management e gestione della commessa, e di Metodologia FMEA.
Sono entrambi estremamente vivaci e capaci, ciascuno con le proprie peculiarità: Mattia si definisce «una persona intellettualmente curiosa», con una grande passione per teatro e letteratura, cosa che gli ha permesso di sviluppare doti di empatia, nonché una notevole immaginazione; Federico, coinvolto in svariate attività di volontariato, ama il cinema, l’escursionismo e lo sci alpino.
Abbiamo stimolato in loro una serie di considerazioni per capire l’approccio di menti giovani all’universo del Project Management e del Problem Solving.
Naturalmente partiamo proprio dall’idea che Federico e Mattia avevano del ‘progetto’ prima di iniziare a esplorare il mondo del Project Management.
«Prima di approcciare al Project Management pensavo al progetto come una ‘nuova idea’», dice Mattia, «sviluppata da una o più persone nel processo di creazione di un prodotto o di un servizio nuovo, o anche nell’aggiornamento di uno esistente. Poi ho scoperto anche prospettive differenti: il progetto visto come un viaggio esplorativo ed educativo, e il suo significato etimologico, nonché l’uso di ogni singola parola impiegata all’interno di un progetto. Il termine stesso di progetto, nella sua accezione semantica, indica ‘gettare in avanti’; questo mi fa immaginare una startup di giovani, dove la nuova idea concepita viene metaforicamente lanciata sul mercato designato, insieme ai calcoli e agli eventuali prototipi, con lo scopo di soddisfare un bisogno del mercato, trasformando così la nuova ispirazione in qualcosa di concretamente vivo.»
Per Federico, invece, l’idea di progetto che aveva inizialmente era forse più intuitiva, «legata all’utilizzo comune del termine nei diversi contesti ordinari, come per esempio: ‘Quali sono i tuoi progetti per il futuro?’ o ‘Quali sono i progetti per l’estate?’. In entrambe le circostanze, si tratta principalmente di un’idea o di un proposito più o meno definito per raggiungere uno scopo prefissato. Questa concezione è legata al significato di “progetto” che ho appreso dopo l’esplorazione dei metodi di Project Management, anche se con qualche differenza: in un progetto ben strutturato, infatti, nulla dev’essere lasciato al caso. Per garantirne il successo, oltre a un’attenta pianificazione, è necessario definire il budget, il team, lo scopo da raggiungere e i limiti temporali.
L’etimologia del termine progetto, dal latino: [pro] avanti e [jacere] gettare, ci rimanda al significato di qualcosa che viene gettato davanti. A mio parere sottolinea l’importanza di una visione a lungo termine proiettata verso il futuro, che sprona a guardare avanti. I progetti, difatti, richiedono una precisa pianificazione e un attento studio delle implicazioni sia presenti che future.»
Ma come immaginano, ciascuno dei due, la fase iniziale della carriera di un giovane Project Manager?
Federico parla subito di «una sfida affascinante, ma al contempo impegnativa e complessa, ostacolata, ai primi passi, dalla gestione dell’ambiguità e dell’incertezza, soprattutto in contesti dove i progetti sono influenzati da molteplici variabili e cambiamenti improvvisi.» Ben ricordando quanto appreso, cita l’acronimo VUCA, che definisce il mondo d’oggi: Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity. Per stressare la mutabilità e l’incertezza, «un approccio più aggiornato del VUCA è stato presentato da Jamais Cascio: l'orizzonte BANI (Ndr: altro acronimo che sta per Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible). Questo richiede una capacità di adattamento rapido e una notevole flessibilità mentale.
Un altro fattore importante è la necessità di possedere una vasta gamma di conoscenze e competenze. Secondo il Talent Triangle del PMI (Project Management Institute), un PM di successo deve essere esperto in tre dimensioni fondamentali: competenze tecniche di Project Management, leadership efficace e una visione strategica e di business. Integrare e bilanciare tali competenze può essere una sfida all’inizio della carriera, specialmente quando si affrontano situazioni complesse e diverse. Per concludere, queste competenze sono affinabili attraverso l’esperienza, quindi è importante per i giovani Project Manager impegnarsi nell’apprendimento continuo e nello sviluppo professionale. Be adaptive. Be agile in learning.»
Secondo il parere di Mattia, invece, le principali difficoltà che un giovane PM può incontrare all’inizio della carriera «includono innanzitutto la disciplina nell’uso delle parole: attribuire il significato, l’intenzione e il referente corretti. Ho idea che il pericolo maggiore per un giovane è quello di usare inconsciamente parole con il significato e l’intenzione giusti, ma sbagliando il referente, o viceversa. Di conseguenza, è importante anche saper formulare domande e fornire risposte corrette ed efficaci. Risulta fondamentale avere un proprio senso critico, ovvero saper riconoscere le differenze e ricavare informazioni utili, attribuendo il loro valore nell’ambito del progetto. Gli ambiti di business più favorevoli all’introduzione di questa disciplina, inoltre, sono a mio parere i settori tecnici e del software, dove si possono applicare metodi agili e interazioni rapide. Al contrario, gli ambiti in cui si riscontra maggiore difficoltà sono i settori della pubblicità e del marketing, che richiedono un alto grado di flessibilità e adattabilità.»
Il lavoro in team è condizione imprescindibile per i progetti; vediamo come Mattia e Federico sono stati colpiti dalle dinamiche alla base del funzionamento degli individui in una squadra che deve raggiungere un obiettivo comune.
A Mattia piace fare un paragone molto ad hoc: «Ciò che mi colpisce è che c’è una somiglianza con la base del gioco di squadra come nel rugby: il capitano della squadra svolge un ruolo simile a quello del Project Manager. Supervisiona l’azione sul campo, prende decisioni tattiche e motiva i giocatori durante il gioco. Assicura che la strategia di gioco sia seguita e adattata in base alle circostanze, garantendo che tutti i componenti siano coinvolti e che l’obiettivo di segnare punti sia sempre presente. In sostanza, il capitano del rugby è il leader sul campo di gioco, che guida il suo team verso la vittoria attraverso coordinazione, comunicazione e leadership, appunto.»
Federico dà valore alla «comunicazione efficace e alla collaborazione tra i membri del team. In un contesto di progetto, è essenziale che ogni membro comprenda chiaramente il proprio ruolo e le proprie responsabilità, ma allo stesso tempo che sia in grado di lavorare in armonia con gli altri per raggiungere gli obiettivi comuni. Ho notato, però, che anche la diversità all’interno del team può essere una notevole risorsa da sfruttare. Ogni componente porta con sé un insieme unico di competenze, esperienze e prospettive, che possono arricchire il processo decisionale e portare a soluzioni più innovative. Infine, mi ha colpito l’importanza di avere un leader efficace all’interno del team. Un leader in grado di ispirare fiducia, guidare il team attraverso le sfide e mantenere alta la motivazione, infatti, può fare la differenza tra il successo e il fallimento di un progetto. I leader più efficaci sono quelli che dimostrano empatia, comunicano chiaramente le aspettative e sono in grado di adattarsi alle mutevoli esigenze del team e del progetto.»
Sempre sul tema del Project Management, scopriamo quali pensano possano essere i fattori che in un’organizzazione ne rendono più difficile l’introduzione.
«Sono molteplici», afferma Federico, aggiungendo subito che «la resistenza al cambiamento rappresenta uno dei principali ostacoli: i membri del team o gli stakeholder possono esitare nel modificare i processi esistenti, considerandoli ancora validi; tale resistenza può derivare dalla mancanza di comprensione dei benefici della gestione dei progetti. Inoltre, la paura di adottare nuove metodologie e processi può ostacolare l’implementazione delle pratiche di Project Management. È quindi essenziale comunicare in modo chiaro i vantaggi delle pratiche di Project Management e fornire una formazione adeguata a superare queste sfide.»
E Mattia: «Ciò che rende più difficile l’introduzione di pratiche di Project Management in un’organizzazione è l’ignoranza o la paura nei confronti di metodi organizzativi e modi di lavorare innovativi. Ignoranza e paura che, di conseguenza, rendono le persone restie ad adottare un approccio proattivo.»
Spostandoci poi sul Problem Solving, e partendo sempre dall’analisi etimologica, grazie alla quale scopriamo una somiglianza tra le parole ‘problema’ e ‘progetto’, proviamo a stimolare in Federico e Mattia le loro considerazioni a riguardo.
Mattia, grazie alle informazioni trovate ed elaborate, ci dice che «l’etimologia delle parole “problema” e “progetto” ci offre un’interessante connessione. Entrambe derivano dal greco antico e la loro origine comune può aiutarci a comprendere meglio il concetto di Problem Solving e come esso sia collegato al processo di progettazione. La parola “problema”, dal greco “próblēma” che significa “qualcosa posto davanti” o “impedimento”, indica una situazione o una questione che richiede una soluzione o una risposta. Immaginiamo di dover attraversare un fiume, ma c’è un grande masso nel mezzo. Il masso è il nostro “problema” da risolvere: come superarlo? Come raggiungere l’altra sponda?
La parola “progetto” ha una radice simile. Deriva dal greco “pro-ienai”, che significa “andare avanti” o “avanzare”. Un progetto è un piano o un insieme di azioni organizzate per raggiungere un obiettivo specifico.
Tornando all’esempio del fiume, il “progetto” potrebbe essere la costruzione di un ponte per superare il masso, cosa che richiede pianificazione, risorse e azioni coordinate.
Il Problem Solving quindi è il processo di risoluzione di un problema. Coinvolge l’analisi, la pianificazione e l’attuazione di soluzioni, ovvero una pro-azione. Quando affrontiamo un problema, dobbiamo progettare una strategia per superarlo. Questo è il collegamento tra le due parole: il Problem Solving rappresenta la costruzione del ponte tra il problema e la soluzione, utilizzando il processo di progettazione per guidarci.»
«I due termini, progetto e problema», per Federico, «riportano al concetto di cambiamento e opportunità in una prospettiva volta verso il futuro. Questo collegamento viene anche evidenziato da Juran nella definizione della parola ‘progetto’, descrivendola come un problema destinato a essere risolto (A project is a problem scheduled for solution). Tale concezione sottolinea una correlazione molto stretta, quasi intrinseca, tra le due parole: risolvere un problema, infatti, è spesso il punto di partenza da cui avviare un progetto, cioè trasformare una situazione di insoddisfazione in un miglioramento. La trasformazione da problema a progetto è quindi il mezzo che ci permette di raggiungere nuove opportunità ed evoluzioni.
Le due parole sono anche accomunate dall’iter necessario per risolvere un problema e realizzare un progetto, che è molto simile. Infatti, in entrambi i casi, sono richieste abilità di problem solving, pianificazione e adattabilità per procedere al meglio e trovare le soluzioni più adeguate al contesto in cui ci troviamo.»
Poiché l’iter di soluzione di un problema deve sempre partire dall’ammissione di avere un problema, e dalla sua descrizione condivisa, proviamo a capire insieme ai ragazzi quali sono per loro le fasi più importanti dell’impostazione iniziale della soluzione di un problema, da cui dipende il successo di ciascuno dei passi successivi, e che ruolo possono avere le parole e il linguaggio.
«I passaggi fondamentali per impostare la risoluzione di un problema», afferma Federico, «partono dal quantificare l’impatto del problema nella circostanza in cui ci troviamo (il costo finanziario, l’effetto sulla produttività, l’effetto sulla soddisfazione del cliente, ecc.). Successivamente, è fondamentale fornire una descrizione chiara e precisa del problema, includendo dove e quando si verifica, chi o cosa ne è influenzato, e qualsiasi altro dettaglio rilevante. Dopo aver definito il problema, il passo ulteriore è identificare la causa alla radice, che può richiedere un’analisi approfondita e l’uso di strumenti come il diagramma di Ishikawa o l’analisi delle 5 W (Who, What, When, Where, Why) per comprendere il motivo per cui il problema si è manifestato. In tutte le fasi di risoluzione di un problema, le parole e il linguaggio giocano un ruolo cruciale: un linguaggio chiaro e preciso può aiutare a definire il problema in modo efficace, comunicare le proprie idee agli altri, formulare ipotesi e presentare soluzioni. Infine, un buon uso del linguaggio può facilitare la collaborazione e la condivisione di idee, che sono la chiave per la risoluzione dei problemi.»
Per Mattia, in base a quanto recepito dai suoi studi, «le fasi chiave per impostare con successo la soluzione di un problema sono l’identificazione del problema, l’analisi approfondita e la definizione degli obiettivi. Il primo step è come fare una mappa del tesoro: devi sapere esattamente qual è il problema, lo metti a fuoco e, se necessario, condividi con le persone con cui lavori. Nella fase successiva si scava più a fondo per capire la causa del problema, e in tal caso il sistema delle 5 W è molto usato e utile. La definizione degli obiettivi è come tracciare la rotta su una mappa. Dove vuoi arrivare? Che cosa vuoi ottenere risolvendo questo problema? Impostare obiettivi chiari aiuta a mantenere la direzione. Di conseguenza credo che il linguaggio e le parole sono come il filo conduttore che tiene insieme tutte queste fasi. Usare un linguaggio chiaro e condiviso aiuta a comunicare il problema in modo comprensibile a tutti i membri del team. Le parole possono anche essere strumenti potenti per ispirare e motivare le persone durante il processo di risoluzione del problema, aiutandole a restare focalizzate e impegnate nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. Inoltre, un buon uso del linguaggio può facilitare la collaborazione e lo scambio di idee tra i membri del team, portando a soluzioni più innovative e efficaci.»
E nell’iter di soluzione di un problema, che peso ha il team? Se la letteratura ci ha regalato geni investigativi come Poirot, Maigret, la Signora in giallo, Sherlock Holmes, tutti ‘solitari’ o che al massimo si avvalgono con distacco e superiorità di qualche gregario, con un ruolo sussidiario e spesso finalizzato a far brillare ancor più la loro intelligenza superiore, non deducete che sarebbe meglio lavorare da soli, allora?
La risposta di Federico è che «lavorare in team offre diversi vantaggi nell’affrontare problemi complessi. Innanzitutto la presenza di molteplici prospettive permette di individuare il problema e trovare soluzioni più adatte al caso. Inoltre, un team consente di valutare i rischi e le opportunità in modo più completo, fornendo un quadro generale maggiormente dettagliato. Rispetto ai grandi detective solitari della letteratura, anche se dotati di talento e intuito straordinari, un team offre una gamma più ampia di risorse e competenze, agevolando l’identificazione, l’analisi e la risoluzione dei problemi in modo più efficiente.»
L’opinione di Mattia è che «lavorare in team è importante perché ogni membro può portare le proprie esperienze e conoscenze utili a trovare una soluzione al problema. Anche i grandi investigatori non riuscirebbero a trovare la soluzione da soli, ma hanno necessariamente bisogno della collaborazione di altre persone per raccogliere informazioni utili per ‘risolvere il caso’.»
Fra le più importanti metodologie del Problem Solving – almeno tra quelle che si muovono in modo convergente verso la soluzione – c’è la metodologia 8D, così chiamata perché assorbe 8 discipline, appunto. Come nei progetti, solo uno sguardo ampio e multidisciplinare può essere davvero efficace per ottenere la soluzione efficace. Verifichiamo quali ambiti del sapere umano e organizzativo sono, per Mattia e per Federico, coinvolti nella soluzione del problema, dove metodi tecnici e di misura sono combinati con i fattori emotivi e psicologici.
Senza dubbio, per Mattia «la gestione del team, quindi includere persone con competenze differenti e un leader che possa guidare il processo, è il primo ambito del sapere umano e organizzativo coinvolto nella soluzione di un problema con la metodologia 8D. Poi c’è l’analisi dei dati tecnici e di misura per identificare e analizzare il problema; i processi organizzativi dove si cerca di ottimizzare dei processi aziendali per prevenire eventuali problemi; infine, eseguire standard di qualità e saper attuare audit interni sono fondamentali per il controllo e il miglioramento continuo.»
Affinché si arrivi alla soluzione di un problema, Federico ritiene che serva la combinazione di diversi ambiti del sapere umano e organizzativo. «Questi includono l’ingegno e la creatività per generare nuove idee, le competenze tecniche e professionali per analizzare e vagliare le possibili soluzioni, e il talento nel coordinare e gestire le risorse disponibili. Inoltre, si adottano metodi e modelli che guidano il processo decisionale e consentono una valutazione razionale delle opzioni disponibili. Tale approccio, definito multidisciplinare, include anche fattori emotivi e psicologici, in quanto la comprensione delle motivazioni, delle preferenze e delle dinamiche interpersonali influisce notevolmente sull’efficacia delle soluzioni proposte e sulla loro accettazione da parte dei soggetti interessati. L’obiettivo finale è quindi sviluppare una strategia completa che bilanci le esigenze pratiche con le valutazioni umane e organizzative, per affrontare il problema in modo completo e soddisfacente.»
Complimenti, ragazzi, e in bocca al lupo!
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