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Globalizzazione: fine dei giochi?

Globalizzazione: dopo 25 anni sembra necessario un cambiamento di approccio

Foto di Paul Brennan - Pixabay

Il mondo industriale italiano è ancora in fermento. Nell’automotive, in questi giorni sono circolate voci sull’arrivo in stabilimenti italiani della produzione di auto elettriche di origine cinese, date in appalto per salvare i livelli occupazionali.

Quasi nello stesso tempo è apparso sul Corriere della Sera un articolo dal titolo “Pannelli fotovoltaici, tutti i numeri del dominio cinese: la transizione green passa solo da Pechino”, nel quale  la Redazione Economia del quotidiano milanese, partendo dai numeri pubblicati in un rapporto ENEL-Ambrosetti, mette in evidenza la condizione di difficoltà in termini di competitività in cui si trova l’Europa, a causa di costi operativi in ingresso molto più alti di quelli cinesi e di una filiera priva di economie di scala.

Foto di Sumanley xulx - Pixabay

Questi due casi – a prescindere dalle riflessioni specifiche di molti commentatori – sono, a mio avviso, un esempio dell’effetto che la cosiddetta globalizzazione, tanto incoraggiata in passato, ha prodotto: il depauperamento e il declino tecnologico di intere filiere industriali del nostro continente.

Negli anni dell’immediato dopoguerra (tra i ’50 e i ’70 del XX secolo) alcuni paesi sono stati oggetto di iniziative industriali volte a riutilizzare tecnologie e ad esportare prodotti divenuti ormai obsoleti in Europa, con lo scopo di dar loro una “seconda giovinezza”, allungandone il ciclo di vita e ricollocando contemporaneamente – in tutto o in parte – i macchinari impiegati per la loro realizzazione.

Foto di Pete Linforth - Pixabay

Successivamente, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino e grazie alle aperture dei governi locali, molte aziende hanno visto nei mercati asiatici, come quello cinese, sia un serbatoio di manodopera a costi convenienti, sia un potenziale sbocco per i propri prodotti. Ecco, quindi, che intere produzioni sono state spostate dall’Europa o sono state addirittura sviluppate e industrializzate sul posto. Questo processo ha favorito la nascita e lo sviluppo di capacità tecniche locali, mentre in Europa si è assistito a un progressivo depauperamento tecnologico di interi settori industriali – come quelli citati ad esempio - che hanno perso, complici anche visioni industriali e politiche inadeguate, linfa vitale nello studiare e implementare nuovi prodotti e tecnologie; la stessa linfa che negli anni ha invece arricchito e trasformato in concorrenti agguerriti i paesi che erano visti come territorio, se non di conquista, almeno di colonizzazione industriale.

Oggi il risveglio è brusco. Ci accorgiamo di essere rimasti indietro in settori tecnologici cruciali e fatichiamo a tenere/recuperare il passo.

Questa situazione tende a essere preoccupante se consideriamo le potenziali ripercussioni dei conflitti esistenti in diverse parti del mondo (in Ucraina, ma anche in Medio Oriente e in Africa), per non parlare dei rapporti USA-Cina, che potrebbero condizionare la disponibilità di prodotti e tecnologie sui quali non abbiamo più la capacità di governo.

Foto di alex dutemps - Pixabay

Oltre ai fattori di cui sopra, anche i cambiamenti climatici impongono una riflessione sull’impatto ambientale dei trasporti delle merci, rendendo sempre più urgente la definizione di una nuova politica industriale che possa rilocalizzare le produzioni e ridare energia a interi comparti della manifattura europea.

È questa una trasformazione di business che impatta su un intero continente e che richiede una nuova visione per recuperare, salvaguardare e mettere al centro delle scelte strategiche la dimensione locale di territori capaci di esprimere ancora elevati livelli tecnologici e manufatturieri.

È necessario che tale visione trovi spazio e applicazione in tutti quei settori, dai beni strumentali materiali, all’informatica e allo sviluppo dei software, le cui applicazioni consentono il funzionamento dei diversi comparti dell’economia.

Per applicare una siffatta strategia con successo, uno strumento è senza dubbio la creazione e lo sviluppo di centri di formazione, sia da parte delle istituzioni pubbliche che delle aziende. Accademie che possano favorire la conservazione e la continuità dei saperi e delle competenze, ma anche il loro incremento attraverso la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti e processi sempre più efficienti e sostenibili per l’intero ecosistema.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Dal mondo dell’automotive

Rumor dall’automotive: riflessioni su fusioni e organizzazione agile

Il mondo dell’automotive è, senza dubbio, uno dei campi industriali che negli ultimi tempi ha dimostrato un certo fermento. Nuove tecnologie, ricadute occupazionali e strategie di alleanze tra costruttori stanno monopolizzando l’attenzione degli addetti ai lavori. Ogni cambiamento ha inevitabilmente delle ricadute sull’organizzazione e sulle prestazioni dei processi aziendali e perciò ci è sembrato opportuno cogliere l’occasione per fare alcune riflessioni di portata generale.

L’evoluzione degli scenari

Foto di L. Pennino

Nelle ultime settimane il settore automotive, soprattutto in Italia, è stato oggetto di diversi rumor e dichiarazioni.

Foto di Fabio - Pixabay

Si è parlato e ancora si discute del futuro di stabilimenti di produzione un tempo tempio dell’auto Made in Italy; parliamo di Mirafiori, da cui sono usciti, dal 1939 a oggi, modelli Fiat entrati nella storia (500, 600, 850, 127, 128, 131, Uno, Punto e innumerevoli altri) e di Pomigliano d’Arco, culla dell’Alfasud (modello con soluzioni tecniche innovative, del quale nel 2022 sono stati festeggiati i 50 anni).

Sono state evocate possibili nozze tra i costruttori Renault e Stellantis, puntualmente smentite dai top manager delle rispettive aziende. Sono stati infine pubblicati e commentati i dati di vendita del 2023 che vedono, a livello mondiale, la conferma della leadership di Toyota (con oltre 11 milioni di unità vendute) e le altre posizioni del podio occupate da Volkswagen e Hyundai-Kia, mentre Renault e Stellantis si dovrebbero ragionevolmente piazzare (in base ai conteggi delle vendite in elaborazione) rispettivamente al quarto e al quinto posto della classifica.

Riflessioni

Gli avvenimenti sopra citati inducono ad alcune riflessioni che non sono strettamente attinenti al mondo dell’automotive, ma hanno una portata generale.

Innanzitutto sulla questione delle fusioni e della riduzione del numero dei player a livello mondiale. Sergio Marchionne, circa dieci anni orsono, aveva ipotizzato un massiccio movimento di consolidamenti nel settore automotive, che avrebbe razionalizzato il numero di costruttori, in particolare europei. Guardando la situazione a posteriori, il fenomeno, nella portata ipotizzata, non si è verificato. Certamente le alleanze sono importanti, specialmente in un settore nel quale gli investimenti, per mantenere i prodotti al passo con le evoluzioni tecnologiche, sono importanti sia dal punto di vista tecnico che sotto il profilo economico.

Foto di Günther Schneider - Pixabay

Come però ha dichiarato recentemente al Corriere della Sera Luca De Meo (CEO di Renault), questa condizione non è sufficiente e rischia di rappresentare la ricerca di soluzioni concettualmente facili a problemi complessi: «Se il mercato è molto volatile e l’ingegnosità molto evolutiva, serve un’organizzazione agile, flessibile, piccola da gestire, per orientare i consumatori all’innovazione e non solo alla riduzione dei costi.»

Organizzazione agile e flessibile dunque, eliminazione degli sprechi più che indiscriminata riduzione dei costi: ecco dei concetti noti a quanti hanno avuto modo di approfondire metodi e strumenti del Toyota Production System, da cui è nata la Lean Organization.

Ottimizzare le attività, minimizzando o eliminando quelle prive di valore aggiunto, consente di migliorare le prestazioni e i risultati, ma anche di liberare delle risorse finanziarie utili per investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuovi processi e nuovi prodotti.

L’investimento in Ricerca e Sviluppo è, infatti, un altro dei settori strategici su cui occorre puntare in modo deciso, anche a costo di sacrificare l’entità dei dividendi agli azionisti, per assicurare un futuro all’impresa. A questo proposito Toyota ha mostrato negli anni un deciso orientamento in tal senso (evidenziato anche dal numero di brevetti detenuti), mentre, per Renault, De Meo, parlando della nuova Twingo (prevista in uscita nel 2026), sempre al Corriere dichiara: «Con lei avremo riscritto le regole del gioco nello sviluppo dei prodotti Renault. La sua formazione richiederà al massimo due anni, un tempo determinante per captare la capacità di reazione del mercato che influisce sulla riduzione dei costi di tutti i futuri progetti. Sarà la vera risposta ai costruttori cinesi, dimostreremo che l’industria dell’automobile europea può essere competitiva e produttiva.»

Foto di andreas160578 - Pixabay

Inoltre, a proposito dell’auto elettrica, altro soggetto di discussione e confronto tra diverse scuole di pensiero, il manager evidenzia come, per alcuni utilizzi, sia migliore dell’auto a combustione interna (ad esempio nelle aree urbane grazie al vantaggio di non diffondere emissioni inquinanti e di avere un funzionamento silenzioso).

Chiaramente il costo è più elevato rispetto alle vetture con motore a benzina o diesel e per ridurlo è necessario un impegno sia da parte del mondo politico sia da parte del mondo della ricerca e dell’industria, perché il progresso non può essere arrestato o, peggio, rifiutato senza correre il rischio di fare un passo indietro.

Personalmente le considerazioni espresse dal CEO di Renault mi trovano molto d’accordo. Spesso ho segnalato, come esempio di esperienza industriale felice, la strategia applicata dall’ing. Adriano Olivetti nella guida dell’azienda omonima. Nelle riflessioni sopra citate si ritrovano un orientamento al prodotto (e non solo ai profitti), al mercato, ma anche alla modalità di organizzare e di sviluppare le attività delle diverse funzioni aziendali, che possono ricordare quanto applicato dall’industriale di Ivrea, che dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione di politica industriale e di evoluzione del business da parte di politici e imprenditori.

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA