“Ci viene quello che c’è”: riflessioni in occasione della giornata mondiale della fotografia (19 agosto 2024)
La mia riflessione parte da un aneddoto vero.
A Reggio Emilia, tanti anni fa, alcuni decenni prima dei cellulari e delle macchinette automatiche per fototessere, c’era un famoso studio fotografico nella centrale via Emilia, punto di riferimento per chiunque avesse bisogno di foto per i documenti, oltre che per i matrimoni e gli altri eventi in cui un fotografo professionista era imprescindibile.
Un’anziana signora dovette rinnovare la foto per la carta d’identità, entrò in questo spazio sacro dalle luci soffuse, macchine già montate sui treppiedi e puntate sui fatidici sgabelli, dove il soggetto doveva accomodarsi e assumere la posa che il fotografo, burbero e sbrigativo sacerdote di questo tempio d’altri tempi, ti faceva assumere, tipicamente con spalle diagonalizzate alla Lilli Gruber e testa reclinata come le sue dita impostavano, usando il tuo mento come un joystick. Dopo la trepidante attesa dello sviluppo, il fotografo consegnò alla signora le foto. Guardandole, la signora disse al fotografo, in dialetto come si usava allora anche fra persone istruite (anche se ora lo traduco): «Come sono venuta brutta!»
E il fotografo, con schiettezza e sempre in dialetto, rispose: «Signora, ci viene quello che c’è!»
È proprio vero che in fotografia “ci viene quello che c’è”?
Io penso di no, ed è proprio questa illusione la trappola più affascinante e intrigante della fotografia: la foto non può essere la resa asettica di qualcosa che c’è, non è documentazione, è sempre lettura, una lettura unica, istantanea, fatta da un soggetto sempre interferente, manipolante e interpretante. Questo spazio meraviglioso e ambiguo ricorda quello dell’interpretazione musicale: la realtà fotografata sta alla foto come lo spartito sta all’interpretazione, che resta unica, irripetibile, non confondibile con nessuna altra e intrecciata con i fili della vita dell’interprete.
La diffusione dei cellulari, con i loro prodigiosi algoritmi aggiusta-tutto (che rappresentano davvero un miracolo di efficacia, che lascia ammirato chi ha imparato la fotografia misurando la luce con un esposimetro e scervellandosi nell’impostazione di tempi e diaframmi), ha amplificato questa illusione, quella di mostrare quello che c’è.
E probabilmente l’abitudine compulsiva a scattare immagini su immagini proiettate verso una condivisione social – alimentata dal “tanto non costa niente” e dalla citata sorprendente qualità tecnica – aggrava questa falsa cognizione di mostrare quello che c’è. Elio e le Storie tese, nel pezzo Lampo, hanno reso molto bene questa follia di scatti: “Con la tua digitale pixellata di pixel, moderna […] sai che mi hai davvero importunato con la dagherrotipia?"
Tutto questo c'entra con il nostro mestiere? Io penso di sì, profondamente.
Che agiamo come formatori, o come consulenti, o come coach, come analisti per la comprensione dei bisogni, come leader di un team o di un progetto, noi facciamo continuamente fotografie, che in nessun caso possono mostrare quello che c’è. In questo nostro essere fotografi delle relazioni umane e delle organizzazioni nel cambiamento, siamo lettori e interpreti, interferiamo e interagiamo, perturbiamo, siamo parte del sistema che osserviamo. Ecco perché le antenne dell’etica devono essere sempre ben accese: il mito della neutralità non esiste (né, credo, sarebbe desiderabile): la nostra lettura rielabora sempre. E ringrazio perché è così!
Stefano Setti
CEO&Founder di BluPeak Consulting
Credit: Gabriella Caselli
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