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Sostenibilità e Business Transformation

La Sostenibilità: espressione e veicolo di Business Transformation

Il termine Sostenibilità è tra quelli che, negli ultimi tempi, sono maggiormente oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica e dei mass media. Non parliamo solo di aspetti ambientali, ma anche sociali ed economici, che hanno impatto sull’evoluzione dei mercati e sulle scelte strategiche delle aziende.

Queste brevi riflessioni intendono evidenziare come, parlando di Sostenibilità a livello aziendale, non si può non finire con l’affrontare il tema della Business Transformation, sul quale BluPeak può apportare significativi contributi.

Sostenibilità: di cosa parliamo

Nell’Enciclopedia Treccani la Sostenibilità è definita come la “condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.

Strettamente collegato al concetto di Sostenibilità è quello di Antropocene che definisce l’era geologica che stiamo vivendo (incominciata orientativamente tra la metà del 1800 e l’inizio del ‘900), in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all'aumento delle concentrazioni di CO2 e altri inquinanti nell'atmosfera e non solo.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il concetto di Sostenibilità non è nuovo. Nasce nel 1972, anno della prima conferenza dell’ONU sull’ambiente, ma recentemente oltre a essere stato riportato d’attualità, è stato anche esteso nell’accezione, come dimostra l’Agenda ONU 2030 “Sustainable Goals” (Obiettivi Sostenibili).

Parliamo quindi di Sostenibilità sotto varie forme e aspetti.

Dal punto di vista ambientale viene posto l’accento sull’utilizzo razionale delle risorse naturali e delle materie prime e dell’energia, sviluppando quei processi che sono in grado di ottimizzare il consumo di questi fattori e di consentire il riutilizzo degli scarti e dei rifiuti in modo da ridurre al minimo o addirittura azzerare quanto è necessario smaltire in discarica.

Ogni anno il quantitativo di risorse naturali prodotte dal nostro pianeta viene esaurito in 6-7 mesi. Superato tale “punto di equilibrio”, per la restante parte dell’anno si procede alla sistematica distruzione di preziose risorse per la nostra sopravvivenza. Si capisce quindi quanto sia importante incentivare la cosiddetta “Economia Circolare” e l’innovazione, e quanto molte aziende debbano strutturarsi per operare in tal senso.

Sotto il profilo sociale ed economico, Sostenibilità vuol dire garantire una corretta formazione alle persone, affinché possano integrarsi nel contesto lavorativo godendo di condizioni favorevoli che possano riflettersi sulle loro condizioni di vita. Vuol dire anche assicurare l’eguaglianza di genere nei percorsi di carriera e nel trattamento economico, affinché nel lavoro come nella vita possano sussistere condizioni di giustizia e di serena collaborazione tra gli individui.

La Sostenibilità secondo l’Unione Europea: ESG e CSRD

Anche l’Unione Europea ha voluto declinare il concetto di Sostenibilità, nella sua applicazione all’organizzazione e ai processi aziendali, attraverso la Direttiva n. 2022/2464 (la cosiddetta “Direttiva CSRD Corporate Sustainability Report Directive”), che alla fine del 2022 ha introdotto per le imprese l’obbligo di applicazione del “Reporting di Sostenibilità”, ossia la redazione di un documento nel quale vengono descritte le modalità con cui l’organizzazione aziendale applica i principi di Sostenibilità dal punto di vista ambientale, sociale e di governance (ESG: Environment, Social, Governance).

In realtà, per alcune imprese (ad esempio banche, assicurazioni, società di grandi dimensioni quotate in borsa) esisteva già (in base all’applicazione della Direttiva n. 2014/95) l’obbligo di rilasciare una “Dichiarazione Non Finanziaria” (Non Financial Reporting) per indicare le implicazioni di natura etica del business, integrate nella visione strategica aziendale.

Il concetto di Reporting di Sostenibilità, introdotto con la Direttiva del 2022, ha inteso rafforzare l’importanza e la dignità di questo documento, che assume rilevanza anche dal punto di vista economico e finanziario nella gestione dell’impresa andando a integrare la documentazione inerente al bilancio aziendale (per questo motivo si parla spesso di Bilancio di Sostenibilità).

Nel Reporting di Sostenibilità sono raccolte informazioni (suffragate da dati numerici) relative agli aspetti delle attività aziendali rilevanti ai fini della Sostenibilità come sopra definita.

Nasce quindi nella redazione della documentazione di bilancio aziendale il cosiddetto “principio della doppia materialità” che affianca i dati finanziari a quelli di Sostenibilità (vedere schema seguente).

Quelle sulla Sostenibilità sono informazioni la cui formalizzazione è destinata ad assumere importanza crescente verso i cosiddetti stakeholder, tra cui i soggetti che finanziano l’impresa (banche, fondi di investimento, ecc.) e quelli che ne tutelano i rischi (Assicurazioni). Si tratta di interlocutori per i quali un corretto approccio dell’azienda ai temi citati, formalizzato con un impegno scritto e monitorato nel tempo, rappresenta già da oggi un fattore preferenziale nella concessione di servizi (linee di credito, polizze, ecc.) poiché mitigante dei rischi di discontinuità nel business aziendale.

In base agli studi sugli obblighi derivanti dall’applicazione della Direttiva CSRD in Italia, si prevede che, nel 2024, circa 3000 aziende saranno interessate dalla redazione del Report di Sostenibilità ma, considerando l’impatto che tale necessità avrà sulla catena di fornitura, il numero delle imprese destinate a confrontarsi con queste tematiche sarà sicuramente più elevato. Se infatti un’azienda – pur esente dagli obblighi relativi alla Direttiva CSRD – è fornitrice di un’azienda tenuta a redigere il Report di Sostenibilità, la prima impresa dovrà necessariamente fornire alla seconda una serie di informazioni e di evidenze relative agli aspetti di Sostenibilità delle proprie forniture. L’impatto di questa nuova regolamentazione è quindi destinato a incidere profondamente sul tessuto economico e imprenditoriale italiano.

Le linee guida per la corretta gestione delle informazioni e per la compilazione del Report di Sostenibilità sono in fase di definizione ed emissione. L’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) è l’organismo europeo che raggruppa esperti di finanza provenienti dalle istituzioni dei diversi Paesi e che ha il compito di emanare degli standard di reporting (ESRS) condivisi e dedicati alle diverse tipologie di aziende.

Gli ESRS raccolgono i principi e le linee guida per il reporting di informazioni non finanziarie, compresi i dati relativi alla Sostenibilità. Tali norme hanno lo scopo di rappresentare chiaramente le modalità di comunicazione delle informazioni non finanziarie affinché i diversi stakeholder possano avere chiare le strategie, le modalità di azione e i risultati delle aziende rispetto alla Sostenibilità. Questi documenti saranno disponibili entro il primo semestre 2024 e saranno rivisti almeno ogni tre anni. Di seguito uno schema di architettura della normativa.

Sostenibilità e Business Transformation

Per affrontare correttamente la redazione del Report di Sostenibilità, è opportuna una riflessione da parte della Direzione aziendale sui diversi aspetti di Sostenibilità dell’organizzazione e del business.

Questo processo può essere realizzato in maniera proficua unendo due tecniche note e utilizzate in ambito aziendale: la Due Diligence e la Gap Analysis. Inoltre sarebbe opportuno il coinvolgimento di un Advisor esterno, a garanzia di un’analisi completa e imparziale.

Applicando i principi della Due Diligence, si vanno ad analizzare in dettaglio tutti gli aspetti dell’organizzazione aziendale, dalle procedure operative, agli indicatori, ai risultati di performance, ecc. Quest’analisi deve essere condotta avendo ben presenti i principi di base e le linee guida della CSRD, di cui abbiamo ampiamente parlato. In questo modo sarà facile individuare le carenze, i Gap appunto, che è necessario/opportuno colmare, e definire le azioni conseguenti.

Tali azioni potrebbero, per esempio, essere di tipo formativo, per migliorare le competenze specifiche delle risorse aziendali, oppure di tipo organizzativo per colmare eventuali lacune relative a specifiche funzioni in organigramma.

Non sono poi da trascurare le certificazioni aziendali, sia di prodotto (come Ecolabel, Plastica Seconda Vita, Greenguard, FSC, ecc.) che di sistema (per citarne alcune: ISO 9001, ISO 14001, EMAS, ISO 45001, ISO 50001, ISO 20400, SA 8000, ISO 37001, ecc.), il cui possesso è garanzia di un effettivo impegno dell’azienda nei diversi ambiti della Sostenibilità.

Conclusioni

In conclusione, adempiere al Report di Sostenibilità (o Bilancio di Sostenibilità come viene spesso chiamato), è un impegno che, se affrontato con la giusta predisposizione, può rappresentare per l’impresa un’occasione di riflessione sulla propria storia e sugli indirizzi da perseguire per il futuro, attuando, quando necessario, una Business Transformation virtuosa, attuando nuovi percorsi per il miglioramento delle attività e dell’organizzazione aziendali in modo da essere, oltre che sostenibili, più efficienti e competitivi.

I vantaggi che derivano da scelte di Sostenibilità, dimostrabili con le opportune evidenze e mantenute nel tempo, hanno effetto su diversi aspetti della realtà aziendale, che vogliamo riassumere di seguito, a chiudere questa breve dissertazione.


Andrea Calisti

Business Transformation Expert - Team BluPeak


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Business Analysis

BUSINESS TRANSFORMATION JOURNEY
BUSINESS ANALYSIS 

Ogni desiderio di trasformazione richiede una motivazione, più o meno consapevole, che ci mette in movimento e che ci spinge a uscire dallo stato di cose attuale per porci in cammino verso un nuovo orizzonte di senso. Detta così pare semplice, eppure come mai si fa sempre tanta fatica ad attuare un reale cambiamento? Spesso la causa non risiede tanto nella mancata motivazione e nemmeno nell’assenza di consapevolezza nel volere il cambiamento, quanto nella capacità di tradurre in pratica, di “mettere a terra”, tutti i subbugli interiori per intraprendere un reale cammino di trasformazione. Di rendere concreto ciò che è presente solo in potenza. Si potrebbe addirittura dire che il vero scarto tra una trasformazione riuscita e una abortita risieda proprio in questa capacità di riuscire a dare una forma coerente – quindi ad attraversare un cambiamento di forma, appunto trans-formare – a ciò che in noi è soltanto un’aspirazione ideale. A riuscire a adattare al reale ciò che in noi è un mero proposito, a far diventare un progetto vero e proprio qualcosa che inizialmente è solo un moto d’opposizione rispetto a una situazione che ci sta stretta. Non è proprio questo, tra l’altro, uno dei compiti del project manager, ossia tradurre in realtà i sogni? Per compiere questa opera di traduzione però non basta essere ottimi project manager, ma servono anche altre competenze maggiormente legate all’arte di rendere attuale ciò che è soltanto presente nel mondo delle idee. Il project manager infatti ha la specifica competenza di “portare la nave in porto”, date le consegne iniziali e gli obiettivi preposti; diverso invece è il ruolo di chi deve trasportare sul piano operativo ciò che frulla nella testa altrui, spesso del nostro cliente. Tale arte, spesso accoppiata a quella del project management, ha un nome e tecniche ben precisi: si chiama Business Analysis.

Per prima cosa, prima di parlare di Business Analysis, occorre compiere un distinguo. La Business Analysis non è la Business Analytics. Quest’ultima, ormai ben più nominata e più conosciuta nel mondo dell’Industry 4.0 rispetto alla mera Business Analysis, si riferisce a «the skills, technologies, and practices for continuous iterative exploration and investigation of past business performance to gain insight and drive business planning. Business analytics focuses on developing new insights and understanding of business performance based on data and statistical methods»[1]. La Business Analytics è dunque importantissima e decisiva per analizzare al meglio dati per tradurli in informazioni utili per pianificare e strutturare progetti attraverso ciò che la tecnologia ci mette a disposizione e attraverso, appunto, gli analytics. Essa è decisiva anche per avere ulteriori spunti necessari per compiere un’analisi approfondita dei bisogni dei clienti a partire dalle loro richieste. La Business Analysis invece è una disciplina vecchia tanto quanto l’uomo perché è «a research discipline of identifying business needs and determining solutions to business problems. Solutions often include a software-systems development component, but may also consist of process improvements, organizational change or strategic planning and policy development. The person who carries out this task is called a business analyst or BA»[2]. Potremmo dire che la Business Analysis contiene in sé e si può servire all’occorrenza della Business Analytics, ma che le due non coincidono né si alternano. Sono piuttosto complementari nella buona riuscita di un’opera di investigazione del bisogno del cliente. La Business Analysis (da adesso BA) è proprio quell’arte trasversale che ha come scopo la traduzione in requisiti di progetto dei bisogni degli stakeholder, in primis dei clienti. Pensiamo allo sviluppo di un software. Il ruolo del BA in questo caso è di riuscire a tradurre in informazioni comprensibili al linguaggio del progetto e dei progettisti/programmatori ciò che anima l’intenzione del cliente, il quale può darsi sia totalmente estraneo al mindset informatico e che non mastichi minimamente l’idioma del mondo del software, ma che necessita tuttavia di un servizio di questo tipo per realizzare la propria aspirazione.

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Capiamo bene perciò che il ruolo del BA è un ruolo decisivo e troppo spesso sottovalutato, posto a metà strada tra il commerciale, il quale ha il compito di dare un costo effettivo all’intervento a partire dalla richiesta del cliente, e il project manager, il quale è il titolare della buona riuscita della realizzazione del servizio, del bene o del prodotto. Il ruolo del BA è un ruolo di raccordo, di ascolto e di comunicazione, un ruolo che potremmo definire “maieutico”, ossia ha come fine quello di far emergere un senso concreto e realizzabile a partire da ciò che muove le intenzioni del cliente e allinearlo alle capacità proprie aziendali. Il compito del BA quindi non è affatto facile, stretto spesso tra le pressioni commerciali e le richieste progettuali, ma è l’ago della bilancia tra un lavoro ben riuscito e ben realizzato e uno invece totalmente disallineato rispetto alle reali esigenze del committente o della nostra organizzazione. Quante volte, infatti, ci è capitato di vedere fallire progetti, lavori, esperienze o implementazione di servizi soltanto perché ci sono state incomprensioni di fondo che, se non trattate ma celate, a lungo andare hanno reso instabile il prodotto del nostro sforzo lavorativo? Il BA è anche una figura ibrida, in grado di maneggiare con cura sia competenze tecniche (necessarie per saper tradurre i need in requirement) sia competenze umanistiche (la capacità di ascolto, il sapersi mettere nei panni degli altri, la comunicazione efficace, ecc.), capace di muoversi su più piani e di tenere insieme persone e ruoli differenti tra loro con armonia e integrazione. 

La Business Analysis è una vera e propria disciplina, con le sue tecniche e il suo bagaglio esperienziale, le sue certificazioni (su tutte IIBA-CPAB® e PMI-PBA®) e la sua community. Spesso poco considerata, soprattutto in ambienti aziendali medio-piccoli, rappresenta invece davvero quel quid in più che rende eccellente un’organizzazione rispetto a chi lavora improvvisando o operando solo sull’emergenza. Valore aggiunto imprescindibile per chi ambisce a mettere in piedi reali trasformazioni, la BA è senza dubbio una, se non la disciplina, che più di tutte sarà richiesta in progetti di Business Transformation negli anni a venire. Perciò… lunga vita alla Business Analysis!

 

Alessandro Melioli

[1] Fonte: Wikipedia

[2] Fonte: Wikipedia

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Decision Making

BUSINESS TRANSFORMATION JOURNEY
DECISION MAKING 

Siamo immersi in un’epoca di cambiamenti tecnologici radicali, profondi e incisivi che vanno a toccare non solo il modo di produrre e di fare business, ma altresì le nostre relazioni, la nostra cultura, la nostra società fino addirittura la nostra persona. Imparare a gestire questa incertezza crescente, vedendo in essa un valore propositivo e non un mero impiccio alle nostre pianificazioni, è fondamentale per adattarsi in maniera saggia e sensata all’incedere dei tempi. D’altro canto tale trasformazione non va accolta con un ottimismo ingenuo, ritenendola neutrale e priva di reali conseguenze sulla nostra vita. Bisogna saperla governare. Per tale motivo, in ambito business, si parla proprio di Business Transformation, ossia di quell’arte composta da innumerevoli strumenti e discipline per gestire al meglio il cambiamento affinché la trasformazione sia positiva e generativa di valore per le nostre organizzazioni e le nostre persone.

Ogni reale trasformazione implica a monte delle scelte consapevoli, ossia delle decisioni prese generalmente dal top management in grado di orientare il flusso degli eventi nella direzione auspicata e desiderata per il bene dell’azienda. E per fare scelte consapevoli è richiesto un addestramento, un sapersi muovere in un contesto sempre più VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) in senso sempre più raffinato e competente, grazie anche a ciò che quel mondo – che si definisce Decision Making, ossia l’arte di prendere decisioni – ha da insegnarci. Partendo da una definizione standard, possiamo vedere il Decision Making come «the cognitive process resulting in the selection of a belief or a course of action among several alternative possibilities. Decision-making is the process of identifying and choosing alternatives based on the valuespreferences and beliefs of the decision-maker. Every decision-making process produces a final choice, which may or may not prompt action» [1].

In primis, per saper prendere decisioni positive e benefiche, occorrono due aspetti decisivi: l’esperienza e la competenza. Nessuna persona con poca esperienza è in grado di scegliere in vista del bene perché banalmente non ha vissuto che cosa è bene e che cosa è male. Non a caso, nelle posizioni apicali delle grandi organizzazioni, risiedono i senior manager, ossia coloro che con tanti anni di esperienza alle spalle sono in grado di offrire un orientamento. D’altro canto l’esperienza non basta, ma servono anche intelligenza, preparazione, competenza, professionalità, al punto in cui, generalmente, nelle posizioni di vertice si scelgono i più preparati accanto ai più esperti. Questa virtù di saper prendere le decisioni opportune si chiama saggezza, intesa come «disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e ciò che è male» [2]. La saggezza ha un fine etico, ossia è indirizzata verso ciò che è bene. E di saggezza ne serve eccome in azienda per non fare scelte scriteriate, ma per condurre l’organizzazione verso lidi floridi! Quando si pensa alla saggezza, la prima immagine che ci viene in mente è un uomo anziano con la lunga barba bianca e una tranquillità d’animo fuori dal comune. Certamente la saggezza richiede tempo, come abbiamo visto poco sopra. Però, accanto alla maestra vita, è necessario sviluppare la competenza necessaria per sapere prendere decisioni, in quanto la saggezza si può e si deve allenare, attraverso numerosi strumenti e piccoli esercizi che, fatti con costanza, ci portano a ragionare in maniera verace, per dirla con Aristotele. Qui ne elenchiamo giusto tre per introdurre la questione.

Hick’s Law. «Il tempo che si impiega a prendere una decisione aumenta in maniera esponenziale in relazione all’aumentare delle opzioni di scelta che si hanno». Il tempo che impieghiamo per una scelta è direttamente proporzionale alle opzioni a disposizione. Molto banalmente, la Legge di Hick ci insegna che per prendere decisioni in breve tempo bisogna fare, per prima cosa, una cernita delle stesse o individuare i passaggi di ciascuna opzione e optare per quella che ne ha meno, a parità di valore. Questo aiuta anche a ridurre ansia e stress che emergono di fronte alla varietà di opzioni, magari a fronte di un’urgenza decisionale, interrompendo la stasi provocata dalle numerose variabili e aiutandoci a procedere spediti nel cammino.

Il metodo Hoop di Gabriele Oettingen. Questo è un metodo che ci aiuta a compiere scelte attraverso la definizione di step graduali, dal desiderio alla realizzazione. Primo step: formulazione del desiderio. Secondo step: analizzare l’outcome. Terzo step: identificare gli ostacoli. Quarto step: il piano di realizzazione. Partendo dal risultato finale che vogliamo ottenere e non dal problema che vogliamo risolvere, disegnando gli step per conseguirlo, possiamo ribaltare la situazione di blocco e avviare una reale trasformazione.

Matrice di Eisenhower. Si tratta di un metodo classico per capire la priorità da dare a ciascuna decisione da prendere. Una matrice, divisa in quattro quadranti, in cui apporre le decisioni da prendere e dividerle tra quelle da “fare”, da “pianificare”, da “eliminare”, da “delegare”. Un metodo semplice e veloce che ci aiuta a focalizzare meglio ciò che conta davvero.

Numerosi sono gli strumenti che possono venirci in aiuto per supportare le nostre scelte, eppure in ogni decisione permane un elemento di incertezza e di imprevedibilità che non possiamo eludere. Sta a noi cercare di limare il più possibile questo fattore, da veri risk manager, e di interpretare con lucidità la situazione in cambiamento, da veri change manager. Importante però per prendere decisioni sensate e per allenare al meglio la propria saggezza è creare ambienti positivi in cui le scelte si fanno in gruppo, attraverso il dialogo, il confronto e la cooperazione, insieme agli stakeholder notevoli. In questo contesto si possono poi fare analisi accurate, magari da più punti di vista e grazie alla multidisciplinarietà del team, e generare opzioni che vanno poi verificate e messe alla prova da più persone. Una volta comprovate le opzioni, occorre procedere con la scelta definitiva: anche qui è compito del team giungere a una conclusione comune.

Prendere decisioni non è qualcosa di naturale. A livello di natura, infatti, noi generalmente reagiamo in maniera istintiva agli impulsi provenienti dal mondo esterno grazie a una serie di pattern di azioni che abbiamo introiettato a livello cerebrale grazie a millenni di evoluzione. Eppure nel mondo attuale, un mondo sempre più liquido, artificiale, umanizzato, non possiamo più affidarci ai meri istinti, ma occorre esercizio, pratica, allenamento per adattarsi al contesto mutato. La presa di decisioni è quindi una cultura, un bagaglio cognitivo a cui attingere per imparare a navigare nel caos della contemporaneità. Da sviluppare in solitaria, ma soprattutto insieme agli altri. Perché da soli si va più veloci, ma insieme si va più lontano. Anche nelle scelte.

 

 

Alessandro Melioli


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Risk Thinking

BUSINESS TRANSFORMATION JOURNEY
RISK THINKING

Ogni trasformazione, ogni transizione, ogni modifica allo stato delle cose è sinonimo di incertezza. Il cambiamento infatti si attiva solo nel momento in cui si lascia una situazione certa, ma che crea disagio, per dare seguito a un desiderio di novità che possa schiudere orizzonti inesplorati, in grado di risolvere quel disagio e fondare un nuovo equilibrio che genera potenzialmente fiducia, crescita, gioia, progresso, profitto. Ogni cambiamento, come sappiamo, si può attivare attraverso un progetto, che di fatto è sinonimo di cambiamento perché è il mezzo attraverso il quale noi possiamo cambiare il mondo, introdurre un elemento innovativo in grado di migliorare (si spera!) l’ambiente e il contesto in cui viviamo, così come la vita della nostra organizzazione. Ogni progetto ci porta da uno stato A attuale a uno stato B desiderato. E ogni project manager che si rispetti sa che deve organizzare il lavoro inerente al progetto per conseguire un’intenzione, pianificando e strutturando tutte quelle azioni necessarie per conseguire l’obiettivo. Ma un vero project manager sa anche che un conto è la pianificazione, un conto è il reale risultato conseguito. Nel corso del progetto possono esserci modifiche, cambiamenti non preventivati, imprevisti, nuovi desideri, ecc., ragion per cui portare a termine un progetto spesso significa navigare nel mare della complessità, cercando di generare un valore che magari si discosta dal piano, ma che va comunque a intercettare il desiderio iniziale. E per fare questo sa che deve servirsi degli strumenti messi a disposizione dalla Business Transformation per imparare a gestire le incertezze, senza lasciarsi travolgere dalle stesse, ma sfruttandole come occasioni. Per questo, per introdurre un cambiamento attraverso un progetto bisogna sapere essere anche dei grandi risk manager.

Il rischio è definito come “incertezza che impatta”, uncertainty that matters. Ossia è un evento che ha una probabilità di accadere e che può sconvolgere il nostro progetto, quindi le nostre intenzioni di cambiamento. Banalmente possiamo pensare alla nostra intenzione di farci una gita in montagna il prossimo weekend per distrarci dalle fatiche quotidiane, per stare all’aria aperta, per fare movimento e rilassarsi. Se non controlliamo, tuttavia, alcuni elementi perturbatori per il nostro progetto, come magari il meteo, lo stato della nostra attrezzatura da montagna, il nostro stato fisico, ecc., rischiamo – appunto – che questi eventi impattino sulla buona riuscita dell’escursione, causando ulteriore stress, disagio e fatiche rispetto alle intenzioni che ci avevano mosso a intraprendere questa gita. Per tale motivo il rischio va trattato con precisione, pena il fallimento della nostra impresa. Dalla buona riuscita della gestione del rischio ne va anche la qualità del progetto stesso. Se prima della gita in montagna mi impegno per controllare il meteo e portare con me il necessario per far fronte agli imprevisti climatici, mi sincero delle condizioni delle attrezzature, correndo ai ripari se qualcosa non funziona, mi rendo conto di essere allenato e in forma per sostenere lo sforzo preventivato, starò pur certo che la gita si rivelerà una gita di qualità. Quindi un successo.

Non è facile gestire i rischi, in primis perché rappresentano quegli elementi perturbatori che potrebbero andare a inficiare i nostri desideri; in quanto esseri umani, facciamo fatica naturalmente a concentrarci su ciò che potrebbe limitare la nostra spinta espansiva. Chi di noi è così interessato a capire cosa potrebbe andare storto nel bel mezzo di un progetto che abbiamo voluto e che ci vogliamo godere? È più facile stare nella piacevolezza della sensazione presente, staccando il cervello, piuttosto che concentrarsi su che cosa può andare storto quando tutto è ok. Per questo la gestione dei rischi richiede soprattutto esercizio, cultura, saggezza e la grande capacità da allenare di individuare i pericoli. I rischi infatti sono le spine nei fianchi del progetto, in particolare quando questi si verificano. E per gestire al meglio i rischi – che non sono i pericoli, in quanto questi rappresentano gli oggetti del rischio, che di per sé è un evento con una probabilità e un impatto – ci sono tanti strumenti e tanti modi tratti dal mondo delle imprese, nello specifico tratti da quelle che si occupano di qualità.

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Senza entrare troppo nel dettaglio, possiamo dire che prima di tutto, per gestire i rischi, occorre riconoscere i pericoli e comprendere quali rischi portano con sé. Ossia individuarli. Già di per sé questa è un’operazione importante: essere consapevoli di ciò che può andare storto è il primo passo per non commettere errori. Una volta identificati e segnalati i pericoli, occorre trattarli a livello qualitativo e quantitativo. A livello qualitativo, lo strumento per eccellenza per gestire i rischi è la matrice PxI (Probabilità x Impatto), nella quale a ogni rischio identificato è assegnato un valore, frutto del prodotto tra la probabilità (stimata) e l’impatto (stimato), e inserito all’interno di una griglia, a partire dalla quale si può comprendere visivamente ciò che è maggiormente rischioso. Lo step successivo riguarda invece l’analisi quantitativa, ossia l’analisi di ogni rischio basata su dati, numeri e informazioni in senso statistico-matematico. Una volta chiarificato lo scenario generale intorno ai rischi del nostro progetto, occorre pianificare le risposte per mitigare gli effetti o ridurre la probabilità dell’evento rischioso, attraverso contro-misure per ciascun rischio che vanno dall’accettazione, al trasferimento della portata dell’impatto, fino all’evitamento e alla riduzione.

Le incertezze fanno parte della vita e sono decisive per la buona riuscita di ogni trasformazione, a maggior ragione se ad alto tasso di complessità. Sta a noi decidere se affrontarle con competenza, trasformando i rischi in opportunità e stimolando il nostro risk appetite, oppure se fermarci sul più bello, optando per la sicurezza rispetto al successo, o peggio ancora non farci caso e dover poi risolvere problemi che richiedono un investimento ben maggiore rispetto alla mera analisi dei rischi. E non serve essere risk manager per saperlo. Già le nonne ce lo dicevano: meglio prevenire che curare!

 

Alessandro Melioli


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Change Management

BUSINESS TRANSFORMATION JOURNEY
CHANGE MANAGEMENT 

Come abbiamo visto nei precedenti articoli, il tema del cambiamento e la sua relativa gestione sono centrali all’interno dei programmi di Business Transformation. Governare una trasformazione del proprio business significa appunto sapere guidare un cambiamento profondo, radicale, essenziale, in grado di rilanciare la propria organizzazione, o comunque di imprimere una direzione differente al senso delle proprie attività core. Avere i rudimenti su come avvengono i cambiamenti e sulla loro gestione è quindi necessario per approcciarsi con competenza alla questione. Il nostro itinerario nelle discipline della galassia Business Transformation non poteva perciò non iniziare proprio da qui, dal Change Management, ossia l’arte di gestire i cambiamenti.

Partendo da una prima definizione standard che troviamo in rete, possiamo dire che «con il termine inglese Change Management si intende un approccio strutturato al cambiamento negli individui, nei gruppi, nelle organizzazioni e nelle società che rende possibile (e/o pilota) la transizione da un assetto corrente a un futuro assetto desiderato. Il change management, così come viene comunemente inteso, fornisce strumenti e processi per riconoscere e comprendere il cambiamento e gestire l'impatto umano di una transizione».

Come si evince da questa affermazione, il cambiamento ha a che fare innanzitutto con una transizione tra uno stato A a uno stato B. Esso è mosso da un desiderio che spesso sopraggiunge come reazione a una situazione di dis-comfort, ossia come risposta istintiva che ci sprona a modificare l’assetto di un contesto all’interno del quale non riusciamo più a perseguire con coerenza ed efficacia i nostri obiettivi attraverso i processi e le operazioni che avevamo messo in campo fino ad allora. Possono essere sconvolgimenti di mercato, eventi esogeni, errori di valutazione, nuovi obiettivi di business. Una volta preso coscienza di questo malessere, ci rendiamo conto che l’unica cosa da fare per sopravvivere, per rilanciarsi oppure per voltare pagina è cambiare. Il change management emerge a questo punto, come bagaglio di competenze ed esperienze da utilizzare per guidare al meglio queste fasi d’incertezza.  

Esistono numerosi modelli scientifici che possiamo usare per comprendere meglio la situazione e le mosse da mettere in campo per affrontare la transizione. Tutti sono accomunati dall’idea per cui un cambiamento, affinché possa avvenire, deve riuscire a vincere la resistenza iniziale, data dalla cristallizzazione di precedenti processi di cambiamenti che sono diventati abitudini. Spesso questa fase è quella foriera di conflitti, perché, come ci insegna Niccolò Macchiavelli nel Principe:

«E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi a capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene... ».

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Una volta però superata questa prima fase, quando il cambiamento è realtà, inizia la vera e propria navigazione a vista in mare aperto, ossia quell’interregno in cui il precedente assetto è alle spalle e ormai lontano, ma quello nuovo fa fatica a manifestarsi all’orizzonte. Ed è proprio qui che si vedono le doti del grande leader, di colui che riesce a tenere il timone dritto verso il nuovo obiettivo, mosso da visione, consapevolezza e pianificazione. Il fine è quello di condurre tutto l’equipaggio, ossia il proprio team e la propria organizzazione, verso un nuovo lido, che a sua volta diventerà col tempo abitudine prima di un nuovo cambiamento.

In particolare, vorremmo segnalare due elementi decisivi nel cambiamento. Il primo riguardo al fatto che ogni cambiamento è sinonimo di progetto. Il progetto significa letteralmente “gettare innanzi” (pro-iacio), ossia è slancio verso un avvenire che ancora non si è manifestato e che ha bisogno di emergere. Il progetto introduce una novità, motivo per cui si dice che il mondo, dopo qualsiasi progetto, è diverso da come lo avevamo lasciato. Da qui la grande missione affidata al project manager, ossia quella di essere change maker, di rendere realtà i desideri attraverso arte e disciplina, di lasciare un segno nel mondo affinché chi viene dopo di noi possa trovare un contesto migliore rispetto a come lo avevamo trovato. Capiamo quindi che ogni change manager sarebbe bene che fosse anche un ottimo project manager, e viceversa. Il secondo fattore da tenere in considerazione riguarda invece la change readiness, ossia la prontezza al cambiamento. L’analisi di questa è decisiva per capire se una transizione ha da farsi oppure no, cercando di indagare le reali motivazioni e i reali obiettivi che guidano tale spinta trasformativa e se l’ambiente, l’organizzazione e le persone sono effettivamente pronte per fare il salto. Tale studio, preliminare all’avvio del progetto di cambiamento, risulta decisivo per evitare conflitti, insuccessi, crisi e per far emergere tutto il potenziale insito nel movimento trasformativo stesso. La change readiness inoltre è importante per scoprire se le nostre organizzazioni hanno quella capacità di rispondere con agilità ed efficacia ai cambiamenti, capacità decisiva in un’epoca, come quella che stiamo vivendo, dove la percezione di ritrovarsi in balia di movimenti centrifughi crescenti è molto alta.

E voi, applicate modelli di change management in azienda? Il cambiamento vi spaventa o vi sfida? E come gestite l’incertezza derivante dalle transizioni? Fatecelo sapere!

  

Alessandro Melioli


BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA

Cosa è la Business Transformation?

CHE COSA È LA BUSINESS TRANSFORMATION?

Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume,
noi stessi siamo e non siamo.

[Eraclito, Sulla Natura, Frammento 46a]

Nulla vi è di più stabile del cambiamento. Come ci insegnano i filosofi antichi, in particolare Eraclito di Efeso, padre del celebre motto panta rei (tutto scorre), una delle principali certezze che contraddistingue le nostre vite è che il mutamento è continuo. Noi siamo costantemente posti in un flusso dinamico, in un movimento perenne che ci fa essere e non essere contemporaneamente, come appunto le acque di un fiume che scorrono in maniera incessante. Noi siamo immersi nel cambiamento. E proprio la relazione a questo cambiamento definisce la nostra identità, la quale è un continuo adeguamento alle variazioni che la realtà ci impone, un equilibrio in perenne transizione che è tale in quanto sottoposto a un moto mai pago, come la stabilità del ciclista data dalla pedalata perpetua. Noi cresciamo e ci individuiamo proprio nel momento in cui impariamo ad accogliere il cambiamento e a farlo nostro in maniera opportuna, come il fiume che diventa tale quando il fluire delle acque va a costruire il suo letto attraverso processi che diventano abitudini. Pare filosofia astratta, in realtà è questione molto concreta. Quante volte infatti abbiamo sperimentato anche noi questa sensazione nelle nostre aziende, ossia questa esigenza di rifocalizzarci, di ridefinirci, di riconoscerci alla luce sia di sconvolgimenti esogeni (per esempio mutamenti del mercato o eventi disruptive, come una pandemia o una rivoluzione tecnologica) sia interni (nuovi obiettivi di business, ristrutturazione nell’organico, ecc.)?

Imparare a gestire il cambiamento è vitale per la salute e la prosperità delle nostre organizzazioni, a maggior ragione in un’epoca nella quale il cambiamento pare essersi fatto sempre più impetuoso e incessante, come acque di un fiume in piena. Da qui nasce l’esigenza di dare un senso complessivo e integrato a una serie di discipline in grado di aiutarci a gestire e governare questo cambiamento con consapevolezza e lucidità, affinché esso non ci travolga ma, anzi, possa rappresentare una potenza in grado di sprigionare nuove energie, forze, quindi anche prospettive di sviluppo e di profitto per le nostre organizzazioni. Questo senso complessivo è racchiuso nella dicitura Business Transformation.  

Come emerge dall’espressione stessa, la Business Transformation si riferisce alla trasformazione nel contesto del business. Per business qui intendiamo ogni tipo di attività economica, posto che con economia ci riferiamo a tutta quella serie di azioni umane necessarie per amministrare beni e risorse in maniera organizzata ed efficace col fine di soddisfare desideri, bisogni, esigenze affinché le persone e le comunità possano fiorire. La trasformazione invece rappresenta un tipo di cambiamento radicale, cambiamento profondo di forma, processo di emersione di nuova identità, definizione essenziale e strutturale di ciò che si è e si fa, in dialogo sempre con il nostro contesto di riferimento, e non mera variazione superficiale. Parlare di Business Transformation, e come abbiamo visto nel precedente articolo sappiamo anche il perché è importante farlo, implica perciò la conoscenza e l’applicazione di una serie di strumenti, tecniche, arti, esperienze e riflessioni per governare ogni mutamento inerente a un contesto organizzativo di matrice economica affinché tale mutamento non travolga l’organizzazione stessa, ma diventi un volano per evolvere e prosperare.

Solo negli ultimi anni si è iniziato a parlare con insistenza di Business Transformation, affiancando tale espressione a quella ormai già nota, se non addirittura inflazionata a livello di senso comune, di digital transfomation. Il concetto di Business Transformation infatti nasce dall’incontro delle discipline IT, quindi è figlia della rivoluzione digitale, con quelle di management legate alla gestione del cambiamento. Sebbene non vi sia ancora una definizione specifica intorno a tale disciplina, o sarebbe meglio dire “etichetta” di discipline necessarie a conseguire la trasformazione, a causa della complessità della questione in gioco e della novità ancora espressa da tale dicitura, possiamo tuttavia provare a offrire una prima definizione di Business Transformation come "the process of fundamentally changing the systems, processes, people and technology across a whole business or business unit. As such, a business transformation project is likely to include any number of change management projects, each focused on an individual process, system, technology, team or department”. Come leggiamo da questa definizione, la Business Transformation non è quindi un processo di mero re-engeneering, il quale si focalizza soltanto magari sull’efficienza dei sistemi, ma va a modificare il senso stesso delle nostre azioni, se non addirittura del paradigma di tutto quanto il nostro business. Essa inoltre non è soltanto una reazione a una pressione esogena che ci costringe a cambiare, come avviene in risposta ai cambiamenti imposti dal mercato, ma attiene complessivamente a numerose motivazioni differenti tra loro – quindi anche motivazioni personali – che, insieme, provocano disagio e problemi al processo di fioritura delle nostre imprese, costringendoci a rivedere l’organizzazione generale del nostro business.

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La Business Transformation comporta delle svolte radicali nel modo di gestire il nostro business di riferimento e, proprio perché radicale, implica una volontà decisa di attuazione da parte del top management, che si assume l’accountability, affinché poi possa essere messa in piedi da un manager in grado di assumersi la responsability di realizzare concretamente il progetto di cambiamento, portando a terra i numerosi bisogni emersi e lavorando a livello operativo nella ridefinizione dei processi. Per tale motivo la Business Transformation è importante che diventi una cultura aziendale e organizzativa trasversale a tutta l’organizzazione, un mindset condiviso che coinvolge tutto l’organismo aziendale nella ridefinizione di ciò che si è.

Entrando nello specifico, ci rendiamo quindi conto che le discipline che costellano la galassia della Business Transformation sono numerose e varie. L’importanza della Business Transformation non risiede tanto nel suo essere un contenitore univoco e specialistico, ma nel suo essere il risultato del confronto e dal dialogo di discipline differenti tra loro, ciascuna delle quali contribuisce alla creazione di processi di trasformazione. Pensiamo a discipline come il change management, il risk management, il project management, la business analysis, fino ad arrivare all’agile e all’insieme delle power skill, ossia tutte quelle competenze di base e trasversali, fondamentali principalmente nelle relazioni con le altre persone, necessarie per garantire un successo integrale alle nostre organizzazioni, quali comunicazione, leadership, team building, creatività, pensiero laterale, ecc. La Business Transformation è una cassetta degli attrezzi di natura cognitiva che possiamo utilizzare all’occorrenza e dalla quale possiamo attingere strumenti particolari per plasmare le organizzazioni in senso organico e integrato, a partire dalla singola problematica, per generare un valore completo e compiuto. 

Il nostro Business Transformation Journey parte proprio da qui, ossia dall’esplorazione di ciascuna delle discipline sopracitate per capire come tali discipline possano tornare utili ai fini del nostro brulicare quotidiano in aziende, imprese e organizzazioni, consci che il valore del percorso, come in ogni organismo complesso è sempre la risultante di una cooperazione tra parti differenti armonizzate all’unisono per interpretare la realtà nel miglior modo possibile.   

 

Per saperne di più:

·      https://www.changeassociates.com/blog/post/what-is-business-transformation

·      https://robwherrett.com/explaining-business-transformation/

 

Alessandro Melioli


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