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RICERCA E INNOVAZIONE

Ricerca e innovazione: componenti strategiche

per la competitività e lo sviluppo delle aziende


Mantenere e accrescere il “business” – nel senso di attività dell’azienda – ed evitare il rischio di trovarsi fuori dal mercato, richiede di perseguire l’innovazione come percorso obbligato, maratona impegnativa ma gratificante.

Tra le notizie dal mondo delle imprese apparse negli ultimi giorni, figurano due annunci che invitano a riflettere su una componente fondamentale per la crescita delle aziende: l’innovazione.

Wikipedia – Dominio pubblico

A Reggio Emilia è stata inaugurata una nuova ala del Parco Innovazione, sorto nei capannoni bonificati e urbanizzati delle ex Officine Meccaniche Reggiane. In questa vasta area, depositaria di una lusinghiera tradizione industriale che dal 1901 ha visto produzioni meccaniche, impiantistiche, ferroviarie e aeronautiche e che ora si apre a una seconda vita, è ospitato un importante polo universitario di UNIMORE (Università di Modena e Reggio Emilia) dedicato, tra l’altro, al digitale, all’ingegneria e all’educazione per l’alta formazione e la ricerca.

Credit: Pete Linforth - Pixabay

Quasi contemporaneamente a tale evento, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy ha diffuso il report sulle attività brevettuali svolte tramite l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi nel 2023. In base ai dati consuntivati, il numero delle domande di brevetto per invenzione industriale è aumentato di circa il 4% rispetto al 2022, mentre le domande relative ai modelli di utilità sono aumentate di circa il 3%.

  

  Credit: Alexa - Pixabay

Queste tendenze mostrano come nel mondo dell’industria, la ricerca e l’innovazione continuino a occupare una posizione strategica, sostenuta dagli orientamenti del mercato verso prodotti e soluzioni in cui le dimensioni digitale e di sostenibilità rivestono un ruolo di primo piano per lo sviluppo dei prodotti e dei processi. È certamente un importante segno di vitalità del sistema imprenditoriale italiano verso la ricerca, la creatività e, quindi, verso le nuove applicazioni industriali, nonostante i difficili momenti della situazione attuale. 


Non è perciò neppure un caso se, in base alle statistiche pubblicate da “Il Sole 24 Ore”, tra le prime aziende quotate alla borsa di New York gli investimenti in ricerca e sviluppo siano mediamente pari al 14 % circa dei ricavi e se tra queste imprese vi siano aziende che si occupano di informatica (hardware e software), ma anche di telecomunicazioni e mobilità.

Questa percentuale è pienamente in linea con quanto sostenuto, ormai da diverso tempo, dagli esperti di organizzazione aziendale, per cui affinché un’azienda possa mantenere e accrescere la propria competitività, è essenziale che quota parte dei ricavi sia reinvestita nelle attività di ricerca e non in mero profitto. È fondamentale che le tecnologie su cui si basano i contenuti dei prodotti e quelle che governano i processi aziendali siano costantemente riviste e aggiornate, sulla base di un’analisi delle tendenze di mercato e delle scelte dei concorrenti.

Credit: Keith Johnston - Pixabay

Restare indietro in questa corsa può condizionare il destino e la stessa sopravvivenza delle imprese che più facilmente rischiano di ritrovarsi ai margini o fuori dal mercato per ‘mancanza di idee’. Non si tratta però, come si potrebbe pensare, di una corsa di pura velocità, ma di una maratona nella quale contano costanza e attento dosaggio dello sforzo. Come nello sport è poi determinante il gioco di squadra e la presenza di talenti in posizioni strategiche.

Tornando al tema iniziale, quindi, è assolutamente importante e strategico perseguire e incoraggiare l’interazione tra mondo accademico e quello industriale nella creazione di relazioni e strutture che possano favorire i giovani nello sviluppo del proprio percorso di formazione, in modo da conservare e tramandare le esperienze consolidate dalle figure senior e per scoprirne di nuove, a vantaggio di una learning organization capace di far crescere l’economia e il lavoro.

 

Andrea Calisti

Business Transformation Expert

 

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La certificazione PMP® e il suo valore

I pensieri e i consigli di due docenti

Silvia Martellos


Proponiamo di seguito alcune riflessioni sulla rilevanza della certificazione PMP® (Project Management Professional) del PMI (Project Management Institute).




Dalia Vodice


Lo facciamo grazie al contributo delle docenti Dalia Vodice e Silvia Martellos, professioniste del progetto e della formazione che vantano una lunga esperienza di preparazione alla certificazione PMP®, in collaborazione con BluPeak Consulting e all’interno dei programmi della BluPeak Project Academy.



Il valore della professione del Project Manager

Il progetto è una parte fondamentale della cultura organizzativa di ogni realtà: cultura della trasformazione e della produzione di valore. Il progetto rappresenta un modello di lavoro sempre più cruciale in qualsiasi organizzazione, non più relegato a supporto delle operation, ma motore diretto di crescita del business dell’azienda, nel mondo della Project Economy. Per questo, investire nelle competenze di project management significa dotarsi di strumenti versatili e potenti, richiesti in ogni contesto.

Il valore aggiunto della certificazione PMP® per il professionista e sul mercato

Si tratta di un grande valore, se pensiamo soprattutto che si tratta di una certificazione che non si è bloccata agli strumenti del passato, ma ha saputo aggiornarsi costantemente. E che inoltre integra tutti gli approcci (predittivo, incrementale, iterativo, agile, ibrido) predisponendo al tailoring e alla leadership, alla gestione delle risorse, alla comunicazione, al risk e al change management.

Pur non essendo l’unica certificazione, e pur esistendo nel mondo altre organizzazioni professionali di project management, con altri tipi di certificazioni, la PMP® del PMI rimane a nostro avviso la più richiesta, la più nota, e quindi di maggior peso se rilevata all’interno di un curriculum.

Prepararsi a tale traguardo significa costruirsi una grande opportunità per sistematizzare la conoscenza relativa al progetto. Il corpo di conoscenze è vasto e contiene le best practice distillate dalla comunità internazionale dei Project Manager; questo comporta per il candidato la cosiddetta sospensione del giudizio: non lasciarsi troppo influenzare dalle proprie pratiche passate, seppur efficaci, e aprirsi a un universo più ampio.

I principali cambiamenti culturali in seno al PMI, più decisivi per la comunità dei Project Manager

Tra i cambiamenti degni di nota, sicuramente l’ampliamento della visuale: i diversi approcci, il tailoring, una maggior sinergia con le discipline del Change Management e della Business Analysis, e un’attenzione più alta alla cultura della progettualità e alla costruzione di un galateo comportamentale del Project Manager. Tutti elementi, questi, presenti all’interno della nuova impostazione dell’esame PMP®.

Consigli a chi sta pensando di lanciarsi nella sfida…

I corsi interaziendali rappresentano un’occasione preziosa di confronto con settori, organizzazioni e pratiche diverse dalle proprie, oltre che un’opportunità di networking.

Ogni aspetto teorico viene reso vivo dalla condivisione di aneddoti e di esperienze professionali differenziate. Poiché l’impegno richiesto è notevole – va detto con chiarezza –,  quando si decide, è importante mettersi nella condizione di poter studiare con regolarità durante l’intero percorso e mirare a sostenere l’esame a stretto giro, per ottimizzare il valore della conoscenza acquisita.

Vince la costanza, il fatto di riuscire a fare un pezzettino ogni giorno; ed è importante trovare all’esterno dei sostenitori che aiutino a mantenere la continuità e a non perdersi d’animo. Ma non vogliamo spaventare: si tratta di un esame fattibile e di grande soddisfazione!

È un’esperienza che noi di BluPeak paragoniamo alla Montagna Blu, richiamata nel nostro logo… Usiamo quest’espressione come metafora di un cammino in ascesa, da compiere insieme, con aiuto vicendevole e complicità nei momenti di difficoltà, ma vòlti alla medesima meta, la cima, raggiunta la quale si torna a valle con un inevitabile quanto significativo cambiamento.

  

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Agile Mindset&Design Thinking - Seconda parte

Agile Mindset&Design Thinking

per una Business Transformation di successo

seconda parte

Proseguendo l’articolo precedente, in cui ho parlato dell’Agile Mindset, ora tratto del Design Thinking.

Il Design Thinking è un modo di pensare, sviluppato per favorire l’innovazione e la creatività, con un approccio orientato all’utente e che parte da una comprensione approfondita dei suoi bisogni, per concepire soluzioni completamente nuove ed efficaci.  

Fin dall’inizio, alla base del Design Thinking c’è l’idea di un cambiamento disruptive: uno schema concettuale nuovo è necessario quando dobbiamo ideare prodotti o servizi innovativi, così come una Business Transformation che debba affrontare un passaggio radicale (quantico) o risolvere problemi particolarmente difficili di qualsiasi natura (i cosiddetti problemi aggrovigliati), laddove un approccio cartesiano convergente non è sufficiente. Nell’affrontare la Business Transformation, il Design Thinking può essere convenientemente integrato con le lezioni provenienti dalla Business Process Reengineering, sviluppate negli anni ’90 (Hammer, Davenport), il cui approccio prevede lo smantellamento e il ripensamento radicale di uno o più processi chiave dell’azienda.

Il Design Thinking si è sviluppato negli anni ‘80 e ‘90 alla Stanford University, adottato e perfezionato dalla maggior parte dei grandi player della produzione manifatturiera e del mondo digitale.

Un principio fondamentale del Design Thinking è che ogni innovazione deve operare nell’intersezione tra: 

  • Desiderabilità del cliente

  • Fattibilità tecnica

  • Sostenibilità aziendale

A mindset, a process, a toolkit?

Una delle principali aree di applicazione del Design Thinking, nei primi decenni della sua vita, è stata la progettazione dell’esperienza dell’utente (UX), dove è fondamentale sviluppare e affinare le competenze per comprendere e affrontare i rapidi cambiamenti negli ambienti e nei comportamenti degli utenti.

Il mondo è diventato sempre più interconnesso e complesso da quando Herbert A. Simon (Nobel per l’Economia e Premio Turing) ha menzionato per la prima volta il Design Thinking nel suo testo del 1969, “Sciences of the artificial”, e ha contribuito ad ampliare i suoi principi. Analisti di svariati settori, come architettura e ingegneria, hanno sviluppato tale modalità altamente creativa per affrontare le esigenze umane nell’era moderna e sempre più organizzazioni, in molteplici ambiti, troveranno nel Design Thinking uno strumento prezioso per sviluppare soluzioni innovative per prodotti e servizi. I team di progettazione utilizzano il Design Thinking per affrontare problemi poco definiti e sconosciuti (l’aggettivo inglese che è stato adottato, wicked, ha il senso di aggrovigliato, diabolico, malvagio, a sottolineare la difficoltà ad affrontarlo con metodi noti e schemi tradizionali; possiamo parlare di problemi complessi), perché in questo modo possono riformularli in modo umano-centrico e concentrarsi su ciò che è più critico per gli utenti.

Tra tutti i processi di progettazione, il Design Thinking è quasi certamente il migliore per pensare fuori dagli schemi. Con esso, i team possono svolgere meglio la ricerca UX, la prototipazione e i test di fruibilità per trovare nuovi modi di soddisfare le esigenze degli utenti.

La seguente distinzione delle fasi caratteristiche del Design Thinking è quella più universalmente adottata:

Fase 1: Empatizzare

Explore Users’ Needs - In questa fase è necessario approcciare empaticamente al problema da risolvere, in genere attraverso l’osservazione degli utenti. L’empatia è fondamentale per un processo di progettazione incentrato sull’uomo, perché consente di mettere da parte le proprie supposizioni sul mondo e di acquisire una visione reale degli utenti e delle loro esigenze. Quando è possibile, il designer deve mettersi nei panni dell’utente e vivere direttamente la sua esperienza. È utile integrare in questa fase qualsiasi conoscenza e capacità di gestire i bias cognitivi e le trappole mentali.

Fase 2: Definire

Assess your stakeholders’ pains & gains - La seconda fase consiste nell’accumulare le informazioni raccolte durante la fase precedente. Le osservazioni vengono analizzate e sintetizzate per definire i problemi principali identificati dal team. Queste definizioni sono talvolta chiamate problem statements. Un potente strumento per questo scopo è chiamato personas (una sorta di archetipo, realistico, del soggetto, con foto, citazioni, desideri, ostacoli...) per aiutare a mantenere gli sforzi centrati sull’uomo prima di procedere alle fasi successive.

Fase 3: Ideare

Create ideas adopting lateral thinking - Ora il team è pronto a generare idee. Il bagaglio di conoscenze acquisito nelle prime due fasi permette al team di iniziare a pensare fuori dagli schemi, a cercare modi alternativi di vedere il problema e a individuare soluzioni innovative per sostanziare l’affermazione proposta. Il brainstorming è particolarmente utile in questo caso, così come qualsiasi altro strumento di pensiero laterale, soprattutto i Sei Cappelli di De Bono (ci tornerò più avanti).

Fase 4: Prototipo

If fail, fail soon - Questa è una fase altamente empirica e sperimentale. L’obiettivo è identificare la migliore soluzione possibile per ogni problema riscontrato. Il team dovrebbe produrre alcune versioni economiche e ridotte del prodotto (o di specifiche funzionalità presenti nel prodotto) per approfondire le idee emerse. Ciò potrebbe comportare anche una semplice prototipazione su carta. Uno dei mantra del Design Thinking, infatti, è show, don’t tell (mostra, non raccontare): si tratta di un chiaro collegamento con l’Agile Mindset, che ricerca i primi feedback degli utenti attraverso la consegna incrementale delle parti di prodotto a cui si è lavorato. Si tratta di un passaggio critico, perché immaginare un fallimento, o peggio ancora cercare feedback negativi da parte degli utenti, è anticulturale, per nulla istintivo, per cui il team leader deve gestire con attenzione la consapevolezza e le emozioni del gruppo.

Fase 5: Test

Challenge your solutions to launch - I prototipi vengono testati rigorosamente. Anche se questa è la fase finale, il Design Thinking è iterativo. I team spesso utilizzano i risultati per ridefinire uno o più problemi successivi. Quindi, si può tornare alle fasi precedenti per effettuare ulteriori iterazioni, modifiche e perfezionamenti, per trovare o escludere soluzioni alternative. L’iterazione può riguardare qualsiasi fase.

Appare chiaro che utilizzando il Design Thinking combiniamo pensiero convergente e divergente, e l’abilità del team leader deve essere focalizzata nel bilanciare efficacemente questi due poli.

Divergent/convergent thinking

I principi di cui sopra possono essere sintetizzati così:

  • La comprensione dei bisogni del cliente è fondamentale.

  • L’approccio è fortemente incentrato sull’uomo.

  • Il valore della prototipazione è grande.

  • Il potere dello schizzo (Show, dont tell).

  • Un approccio al pensiero laterale ben allenato aiuta a evitare i bias cognitivi.

The De Bono Six Hats

I Sei cappelli per pensare sono stati creati e sviluppati dal Dr. Edward de Bono. La tecnica dei Sei cappelli e l’idea associata del pensiero parallelo forniscono ai team un mezzo per pianificare i processi di pensiero in modo dettagliato e coeso e, così facendo, per pensare insieme in modo più efficace.(1)

Sebbene il metodo dei Sei cappelli di De Bono non sia effettivamente incorporato nel Design Thinking, potrebbe rappresentarne una potente integrazione.

 Vediamo nel dettaglio:

  • Il Cappello Bianco si basa sull’analisi di informazioni conosciute o necessarie: “I fatti, solo i fatti.”

  • Il Cappello Giallo simboleggia luminosità e ottimismo. Sotto questo cappello si esplorano gli aspetti positivi e costruttivi e si cercano vantaggi e benefici.

  • Il Cappello del risk management è probabilmente il cappello più potente, ed è un problema, tuttavia, se usato eccessivamente: individua i punti critici e le cause di mal funzionamenti. È per sua natura un cappello d’azione, con l’intento appunto di evidenziare i rischi e superarli.

  • Il Cappello Rosso rappresenta sentimenti, presentimenti e intuizioni. Quando si usa questo cappello, è possibile esprimere liberamente le emozioni e ciò che proviamo, condividere paure, simpatie, antipatie, amori e odio.

  • Il Cappello Verde si concentra sulla creatività, sulle possibilità, sulle alternative e sull’originalità. Ci offre l’opportunità di esprimere concetti e percezioni nuovi.

  • Il Cappello Blu viene utilizzato per gestire in modo strutturato il processo del pensiero. È il meccanismo di controllo che garantisce che le linee guida dei Sei Cappelli del Pensiero® siano osservate.

Qui di seguito gli obiettivi che possono essere raggiunti applicando tale metodologia:

  • Massimizzare la collaborazione produttiva e minimizzare l’interazione e i comportamenti controproducenti

  • Considerare questioni, problemi, decisioni e opportunità in modo sistematico

  • Utilizzare il pensiero parallelo come gruppo o team per generare idee e soluzioni più numerose e migliori

  • Rendere le riunioni molto più brevi e produttive

  • Ridurre i conflitti tra i membri del team o i partecipanti alle riunioni

  • Stimolare l’innovazione generando rapidamente idee in maggior numero e migliori

  • Creare riunioni dinamiche e orientate al risultato, che invoglino le persone a partecipare

  • Andare oltre l’ovvio per scoprire soluzioni alternative efficaci

  • Individuare opportunità dove gli altri vedono solo problemi

  • Pensare chiaramente e oggettivamente

  • Vedere i problemi da angolazioni nuove e insolite

  • Fare valutazioni approfondite

  • Vedere tutti gli aspetti di una situazione

  • Tenere a bada l’ego e la difesa del territorio

  • Ottenere risultati notevoli e significativi in meno tempo

1 https://en.wikipedia.org/wiki/Six_Thinking_Hats





CONCLUSIONI

In chiusura del mio intervento, diviso qui sul sito BluPeak in due parti, ricordo che la tipologia degli attuali scenari di mercato richiedono alle organizzazioni forti capacità per realizzare cambiamenti costanti e regolari. Quindi i due approcci analizzati:

  • l’Agile Mindset, ovvero l’arte di fornire soluzioni flessibili e incrementali, accogliendo il cambiamento,

  • il Design Thinking, cioè l’arte del pensiero laterale, creativo e divergente, che permette di ottenere idee e prodotti radicalmente nuovi, in grado di soddisfare i clienti,

grazie alle caratteristiche precipue di ciascuno, possono essere convenientemente adottati e integrati per massimizzare le capacità di cambiamento richieste. Business Transformation, quindi, non appare più solo un termine ombrello, come viene diffusamente detto, che riunisce tutti gli strumenti necessari, bensì una vera e propria cultura del cambiamento organizzativo in grado di ottenere il successo.

Nell’era dell’Industria 5.0, definita anche come Economia dell’Innovazione, la comunità industriale internazionale ha riconosciuto che, oltre allo sviluppo tecnologico – più spesso digitale – è necessario puntare sulle persone e sui processi, adottando un approccio complesso e olistico alla trasformazione aziendale. Sia l’Agile Mindset (che include l’Agile Project Management e l’Organizational Agility) che il Design Thinking stanno fornendo agli stakeholder del cambiamento un vasto spettro di nuove competenze e di strumenti, opportunamente raccolti in toolkit.

Agile Mindset e Design Thinking sono stati creati per migliorare la capacità di innovazione nelle sfide di cambiamento dirompenti e con scenari incerti; entrambi hanno alternato periodi di moda a periodi di scetticismo, ma altrettanto entrambi sono oggi adottati dai grandi player e vengono riconosciuti, unanimemente, come efficaci tool per comprendere e gestire i cambiamenti.  

Agile Mindset e Design Thinking sono oramai ben sviluppati a livello globale, sufficientemente maturi e soprattutto costantemente perfezionati. Sia l’uno che l’altro sono basati su un approccio human-centered. Risultano inoltre in grado di potenziare le capacità di trasformazione e, nel contempo, possono essere fortemente rafforzati dalla vision e dalla strategia della Business Transormation stessa.

Last but not least, non possiamo non considerare la leadership: la richiesta di questo insieme integrato di capacità, allontanandoci dalle interpretazioni più facili e inefficaci di questa parola oramai abusata, sta diventando sempre maggiore proprio per guidare o sostenere il cambiamento. Importante è esplorarne anche le svariate e differenti dimensioni: leadership interpersonale, organizzativa, strategica, relativa alla mission nonché a sé stessi.

 

Stefano Setti

CEO&Founder di BluPeak Consulting

 

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Agile Mindset&Design Thinking - Prima parte

Agile Mindset&Design Thinking

per una Business Transformation di successo

Prima parte

Prendendo spunto dallo speech che ho avuto il piacere di presentare in contesti internazionali, con due articoli sul nostro blog metterò a confronto l’Agile Mindset e il Design Thinking: due diversi modi di pensare all’innovazione e dar forma al futuro, entrambi centrati sull’essere umano e quindi cruciali per sostenere i manager nella visione e nella guida delle trasformazioni. Andando oltre, e come suggerisce il titolo, indicherò come la loro integrazione possa essere applicata alla gestione di trasformazioni aziendali che siano solide ed efficaci.

Suddividendo quindi il tema in due parti, in questo primo articolo parlerò dell’Agile Mindset.

Being vs Doing Agile

Essere professionisti Agili significa che le azioni e i comportamenti sono guidati e plasmati dai 4 valori e dai 12 principi enunciati nel Manifesto per lo sviluppo agile del software del 2001, comunemente noto come Manifesto Agile, secondo cui l’approccio Agile dà priorità a:

  •  Individui e interazioni più che a processi e strumenti

  • Software funzionante più che a documentazione esaustiva

  • Collaborazione con il cliente più che alla negoziazione del contratto

  • Rispondere ai cambiamenti più che a seguire un piano

Il focus è su quel più che: l’Agile non sta eliminando vecchie pratiche, ma sta dettando una nuova priorità. La differenza chiave tra essere Agile e fare Agile è che essere Agile significa credere nei valori e nei principi enunciati nel Manifesto Agile, mentre fare Agile richiede l’uso di strumenti, tecnologie e metodologie moderne per creare processi di consegna continua che rispettino i princìpi dell’Agile.

Agile project management

I cicli di vita adattativi, come la famiglia di framework agili (Scrum, XP, TDD, ecc.), dovrebbero essere adottati quando si affronta un elevato grado di incertezza, considerandone entrambe le principali dimensioni, sempre presenti e identificabili in ogni tipo di iniziativa di innovazione: uncertainty of requirements e uncertainty of technology (figura sotto).

Uncertainty and complexity model inspired by the stacey complexity model

Agile Practice Guide, by PMI® - Project Management Institute, page 14

L’Agile, o cicli di vita guidati dal cambiamento (iterativi o incrementali), si sforza di ottenere feedback tempestivi dal cliente, attraverso la consegna continua di parti di prodotto o soluzione (potenzialmente rilasciabili). Non tutto il contenuto (scope) è definito chiaramente all’inizio del progetto, ovvero nella fase di pianificazione, come avviene nell’approccio predittivo. Il contenuto dettagliato viene definito e approvato prima dell’inizio di ciascuna iterazione.

 

Val la pena ricordare i 12 principi di un approccio Agile:

 

  1. Soddisfazione del cliente attraverso la consegna tempestiva e continua del software.

  2. Accogliere i cambiamenti dei requisiti, anche in fase di sviluppo avanzato.

  3. Consegnare frequentemente parti di prodotto funzionanti (settimane più che mesi).

  4. Cooperazione stretta e quotidiana tra stakeholder (i soggetti del business) e sviluppatori.

  5. I progetti sono costruiti intorno a individui motivati, con cui creare un rapporto di fiducia.

  6. Parlare faccia a faccia, in maniera diretta, è la migliore forma di comunicazione.

  7. Il prodotto funzionante è il principale metro di misura del progresso del progetto.

  8. Promuovere uno sviluppo sostenibile, in grado di mantenere un ritmo costante.

  9. Porre attenzione continua all’eccellenza tecnica e alla buona progettazione.

  10. La semplicità, ovvero l’arte di massimizzare la quantità di lavoro non svolto, è essenziale.

  11. I migliori requisiti e progetti emergono da team che si auto-organizzano.

  12. Con tempi regolari, il team riflette su come diventare più efficace e si adatta di conseguenza.

 

La figura seguente mostra la relazione tra Mindset, Valori, Principi, Pratiche, nonché l’opportunità di raccogliere e armonizzare le pratiche in framework, standard o personalizzati.

The Agile Funnel - A model for change

Image credit: Ahmed Sidky, from cprime.com (1)

Scrum, il framework Agile più popolare e adottato, è stato sviluppato nei primi anni ‘90. Nel 2010, Ken Schwaber e Jeff Sutherland hanno scritto la prima versione della Scrum Guide, nel tempo aggiornata, per aiutare le persone in tutto il mondo a comprendere Scrum.

Secondo The Scrum Guide (2):

  • Scrum si basa sull’empirismo e sul pensiero lean. L’empirismo afferma che la conoscenza proviene dall’esperienza e da decisioni prese in base a ciò che viene osservato. Il pensiero lean riduce gli sprechi e si concentra sugli elementi essenziali.

  • Scrum utilizza un approccio iterativo e incrementale per ottimizzare la prevedibilità e controllare il rischio. Scrum coinvolge gruppi di persone che, collettivamente, hanno competenze ed esperienze necessarie per svolgere il lavoro e condividono o acquisiscono tali competenze in base alla necessità.

  • Scrum combina quattro eventi formali per l’ispezione e l’adattamento all’interno di un evento che li contiene, lo Sprint. Questi eventi funzionano perché implementano i pilastri empirici di Scrum: trasparenza, ispezione e adattamento.

Oltre a Scrum, sono stati sviluppati altri framework agili, come XP (Extreme Programming), FDD (Function Driven Development), TDD (Test Driven Development) e, parzialmente sovrapponibili, Kanban e Lean. E oltre a questi, il PMI® (Project Management Institute), raccogliendo un insieme comune di linee guida e strumenti, ha sviluppato un approccio più generale e agnostico, contenuto nell’Agile Practice Guide.

Organizational Agility

L’idea di Organizational Agility non si concentra esclusivamente sulla gestione di progetti agili, bensì su una capacità aziendale di adattarsi e reagire ai cambiamenti. Il termine è stato definito molto prima della recente crisi pandemica, considerando gli attuali scenari aziendali parte del mondo VUCA (3); negli ultimi anni di crisi, la connessione tra Organizational Agility e l’idea di resilienza ha continuato a rafforzarsi. Alcuni autori spiegano l’Organizational Agility come la capacità di sviluppare strategie resilienti, mentre altri considerano l’agilità più vicina al pensiero lean, spostando quindi l’attenzione più su processi efficienti che sulla capacità di cambiare.

Secondo lo Scaled Agile (SAFe), “La competenza di Organizational Agility descrive come le persone orientate al pensiero lean e le squadre agili ottimizzano i loro processi aziendali, evolvono la strategia con nuovi impegni chiari e decisi e si adattano rapidamente all’organizzazione secondo necessità per sfruttare nuove opportunità”. (4)

Agile Mindset

Adottiamo l’espressione Agile Mindset per sottolineare che abbiamo soprattutto bisogno di un insieme di strumenti cognitivi e decisionali per affrontare un mondo in costante cambiamento e con un alto grado di incertezza. Alcuni pilastri dell’Agile Mindset sono:

  • Approccio basato sul valore: l’unico driver dovrebbe essere il valore aziendale

  • Ricerca di feedback tempestivo dal cliente

  • La cultura di stabilire priorità, l’idea di Minimum Viable Product (MVP)

  • Accogliere i cambiamenti anche se intervengono in una fase avanzata del progetto

  • Eccellente progettazione, unita allo sforzo per la semplicità (less is more)

  • Primato della face-to-face communication

  • Costruzione di fiducia all’interno del team

  • Potere dei team auto-organizzati, idea di servant leadership

  • La cultura della retrospettiva: una costante auto-osservazione per imparare dalle esperienze del singolo e del team.

 Un tentativo di includere sia l’Agile project management che l’Organizational Agility ha portato al metodo DSDM (Dynamic Systems Development Method).

THE DISCIPLINED AGILE (DA) TOOL KIT

In base alla definizione del PMI® - Project Management Institute, il DA® tool kit è un kit di strumenti per team o aziende che sfrutta centinaia di pratiche agili per condurre al modo migliore di lavorare. L’idea di base, dopo anni di applicazioni di framework, è che “La vera agilità aziendale deriva dalla libertà, non dai framework”, combinata con l’idea che ogni azienda dovrebbe essere libera di adottare un approccio ibrido altamente personalizzato, sfruttando comportamenti originali.

Nella storia dei modelli organizzativi, specialmente quelli che si prefiggono di essere al servizio dell’innovazione, abbiano già assistito in diverse epoche alla paradossale evoluzione di alcuni paradigmi: nati proprio per “liberare” la comunità degli sviluppatori (intendendo con questo termine in senso lato chi si occupa di costruire il nuovo attraverso iniziative progettuali) da vincoli, dogmi e prescrizioni spesso insiti nei framework, talvolta si sono trasformati con il tempo e la stratificazione delle pratiche in nuovi sistemi dogmatici.

Riteniamo in ogni caso di grande attualità ed efficacia i concetti di ibridazione e tailoring, che devono far parte di ogni moderno approccio metodologico.

Stefano Setti

CEO&Founder di BluPeak Consulting

1 https://www.anagilemind.org/articles/the-agile-funnel-a-model-for-change

2 The Scrum Guide - The Definitive Guide to Scrum: The Rules of the Game, by Ken Schwaber & Jeff Sutherland, November 2020

3 VUCA is an acronym coined in 1987, to describe or to reflect on the volatility, uncertainty, complexity and ambiguity of general conditions and situations,
https://en.wikipedia.org/wiki/Volatility,_uncertainty,_complexity_and_ambiguity

4 © Scaled Agile, Inc. https://scaledagile.com/

 

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Globalizzazione: fine dei giochi?

Globalizzazione: dopo 25 anni sembra necessario un cambiamento di approccio

Foto di Paul Brennan - Pixabay

Il mondo industriale italiano è ancora in fermento. Nell’automotive, in questi giorni sono circolate voci sull’arrivo in stabilimenti italiani della produzione di auto elettriche di origine cinese, date in appalto per salvare i livelli occupazionali.

Quasi nello stesso tempo è apparso sul Corriere della Sera un articolo dal titolo “Pannelli fotovoltaici, tutti i numeri del dominio cinese: la transizione green passa solo da Pechino”, nel quale  la Redazione Economia del quotidiano milanese, partendo dai numeri pubblicati in un rapporto ENEL-Ambrosetti, mette in evidenza la condizione di difficoltà in termini di competitività in cui si trova l’Europa, a causa di costi operativi in ingresso molto più alti di quelli cinesi e di una filiera priva di economie di scala.

Foto di Sumanley xulx - Pixabay

Questi due casi – a prescindere dalle riflessioni specifiche di molti commentatori – sono, a mio avviso, un esempio dell’effetto che la cosiddetta globalizzazione, tanto incoraggiata in passato, ha prodotto: il depauperamento e il declino tecnologico di intere filiere industriali del nostro continente.

Negli anni dell’immediato dopoguerra (tra i ’50 e i ’70 del XX secolo) alcuni paesi sono stati oggetto di iniziative industriali volte a riutilizzare tecnologie e ad esportare prodotti divenuti ormai obsoleti in Europa, con lo scopo di dar loro una “seconda giovinezza”, allungandone il ciclo di vita e ricollocando contemporaneamente – in tutto o in parte – i macchinari impiegati per la loro realizzazione.

Foto di Pete Linforth - Pixabay

Successivamente, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino e grazie alle aperture dei governi locali, molte aziende hanno visto nei mercati asiatici, come quello cinese, sia un serbatoio di manodopera a costi convenienti, sia un potenziale sbocco per i propri prodotti. Ecco, quindi, che intere produzioni sono state spostate dall’Europa o sono state addirittura sviluppate e industrializzate sul posto. Questo processo ha favorito la nascita e lo sviluppo di capacità tecniche locali, mentre in Europa si è assistito a un progressivo depauperamento tecnologico di interi settori industriali – come quelli citati ad esempio - che hanno perso, complici anche visioni industriali e politiche inadeguate, linfa vitale nello studiare e implementare nuovi prodotti e tecnologie; la stessa linfa che negli anni ha invece arricchito e trasformato in concorrenti agguerriti i paesi che erano visti come territorio, se non di conquista, almeno di colonizzazione industriale.

Oggi il risveglio è brusco. Ci accorgiamo di essere rimasti indietro in settori tecnologici cruciali e fatichiamo a tenere/recuperare il passo.

Questa situazione tende a essere preoccupante se consideriamo le potenziali ripercussioni dei conflitti esistenti in diverse parti del mondo (in Ucraina, ma anche in Medio Oriente e in Africa), per non parlare dei rapporti USA-Cina, che potrebbero condizionare la disponibilità di prodotti e tecnologie sui quali non abbiamo più la capacità di governo.

Foto di alex dutemps - Pixabay

Oltre ai fattori di cui sopra, anche i cambiamenti climatici impongono una riflessione sull’impatto ambientale dei trasporti delle merci, rendendo sempre più urgente la definizione di una nuova politica industriale che possa rilocalizzare le produzioni e ridare energia a interi comparti della manifattura europea.

È questa una trasformazione di business che impatta su un intero continente e che richiede una nuova visione per recuperare, salvaguardare e mettere al centro delle scelte strategiche la dimensione locale di territori capaci di esprimere ancora elevati livelli tecnologici e manufatturieri.

È necessario che tale visione trovi spazio e applicazione in tutti quei settori, dai beni strumentali materiali, all’informatica e allo sviluppo dei software, le cui applicazioni consentono il funzionamento dei diversi comparti dell’economia.

Per applicare una siffatta strategia con successo, uno strumento è senza dubbio la creazione e lo sviluppo di centri di formazione, sia da parte delle istituzioni pubbliche che delle aziende. Accademie che possano favorire la conservazione e la continuità dei saperi e delle competenze, ma anche il loro incremento attraverso la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti e processi sempre più efficienti e sostenibili per l’intero ecosistema.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Dal mondo dell’automotive

Rumor dall’automotive: riflessioni su fusioni e organizzazione agile

Il mondo dell’automotive è, senza dubbio, uno dei campi industriali che negli ultimi tempi ha dimostrato un certo fermento. Nuove tecnologie, ricadute occupazionali e strategie di alleanze tra costruttori stanno monopolizzando l’attenzione degli addetti ai lavori. Ogni cambiamento ha inevitabilmente delle ricadute sull’organizzazione e sulle prestazioni dei processi aziendali e perciò ci è sembrato opportuno cogliere l’occasione per fare alcune riflessioni di portata generale.

L’evoluzione degli scenari

Foto di L. Pennino

Nelle ultime settimane il settore automotive, soprattutto in Italia, è stato oggetto di diversi rumor e dichiarazioni.

Foto di Fabio - Pixabay

Si è parlato e ancora si discute del futuro di stabilimenti di produzione un tempo tempio dell’auto Made in Italy; parliamo di Mirafiori, da cui sono usciti, dal 1939 a oggi, modelli Fiat entrati nella storia (500, 600, 850, 127, 128, 131, Uno, Punto e innumerevoli altri) e di Pomigliano d’Arco, culla dell’Alfasud (modello con soluzioni tecniche innovative, del quale nel 2022 sono stati festeggiati i 50 anni).

Sono state evocate possibili nozze tra i costruttori Renault e Stellantis, puntualmente smentite dai top manager delle rispettive aziende. Sono stati infine pubblicati e commentati i dati di vendita del 2023 che vedono, a livello mondiale, la conferma della leadership di Toyota (con oltre 11 milioni di unità vendute) e le altre posizioni del podio occupate da Volkswagen e Hyundai-Kia, mentre Renault e Stellantis si dovrebbero ragionevolmente piazzare (in base ai conteggi delle vendite in elaborazione) rispettivamente al quarto e al quinto posto della classifica.

Riflessioni

Gli avvenimenti sopra citati inducono ad alcune riflessioni che non sono strettamente attinenti al mondo dell’automotive, ma hanno una portata generale.

Innanzitutto sulla questione delle fusioni e della riduzione del numero dei player a livello mondiale. Sergio Marchionne, circa dieci anni orsono, aveva ipotizzato un massiccio movimento di consolidamenti nel settore automotive, che avrebbe razionalizzato il numero di costruttori, in particolare europei. Guardando la situazione a posteriori, il fenomeno, nella portata ipotizzata, non si è verificato. Certamente le alleanze sono importanti, specialmente in un settore nel quale gli investimenti, per mantenere i prodotti al passo con le evoluzioni tecnologiche, sono importanti sia dal punto di vista tecnico che sotto il profilo economico.

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Come però ha dichiarato recentemente al Corriere della Sera Luca De Meo (CEO di Renault), questa condizione non è sufficiente e rischia di rappresentare la ricerca di soluzioni concettualmente facili a problemi complessi: «Se il mercato è molto volatile e l’ingegnosità molto evolutiva, serve un’organizzazione agile, flessibile, piccola da gestire, per orientare i consumatori all’innovazione e non solo alla riduzione dei costi.»

Organizzazione agile e flessibile dunque, eliminazione degli sprechi più che indiscriminata riduzione dei costi: ecco dei concetti noti a quanti hanno avuto modo di approfondire metodi e strumenti del Toyota Production System, da cui è nata la Lean Organization.

Ottimizzare le attività, minimizzando o eliminando quelle prive di valore aggiunto, consente di migliorare le prestazioni e i risultati, ma anche di liberare delle risorse finanziarie utili per investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuovi processi e nuovi prodotti.

L’investimento in Ricerca e Sviluppo è, infatti, un altro dei settori strategici su cui occorre puntare in modo deciso, anche a costo di sacrificare l’entità dei dividendi agli azionisti, per assicurare un futuro all’impresa. A questo proposito Toyota ha mostrato negli anni un deciso orientamento in tal senso (evidenziato anche dal numero di brevetti detenuti), mentre, per Renault, De Meo, parlando della nuova Twingo (prevista in uscita nel 2026), sempre al Corriere dichiara: «Con lei avremo riscritto le regole del gioco nello sviluppo dei prodotti Renault. La sua formazione richiederà al massimo due anni, un tempo determinante per captare la capacità di reazione del mercato che influisce sulla riduzione dei costi di tutti i futuri progetti. Sarà la vera risposta ai costruttori cinesi, dimostreremo che l’industria dell’automobile europea può essere competitiva e produttiva.»

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Inoltre, a proposito dell’auto elettrica, altro soggetto di discussione e confronto tra diverse scuole di pensiero, il manager evidenzia come, per alcuni utilizzi, sia migliore dell’auto a combustione interna (ad esempio nelle aree urbane grazie al vantaggio di non diffondere emissioni inquinanti e di avere un funzionamento silenzioso).

Chiaramente il costo è più elevato rispetto alle vetture con motore a benzina o diesel e per ridurlo è necessario un impegno sia da parte del mondo politico sia da parte del mondo della ricerca e dell’industria, perché il progresso non può essere arrestato o, peggio, rifiutato senza correre il rischio di fare un passo indietro.

Personalmente le considerazioni espresse dal CEO di Renault mi trovano molto d’accordo. Spesso ho segnalato, come esempio di esperienza industriale felice, la strategia applicata dall’ing. Adriano Olivetti nella guida dell’azienda omonima. Nelle riflessioni sopra citate si ritrovano un orientamento al prodotto (e non solo ai profitti), al mercato, ma anche alla modalità di organizzare e di sviluppare le attività delle diverse funzioni aziendali, che possono ricordare quanto applicato dall’industriale di Ivrea, che dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione di politica industriale e di evoluzione del business da parte di politici e imprenditori.

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA